Nel giorno in cui l’Isis uccideva in un triplice attacco kamikaze 60 civili nella città assira di Tel Tamer, ripresa dalle Ypg kurde, spauracchio di Ankara, gli Usa tentavano di salvare la Turchia dalle accuse che rischiano di affondarla: prima i kurdi turchi, poi Mosca e infine Baghdad, l’asse anti-Erdogan snocciola video e dati sul presunto acquisto di greggio contrabbandato dall’Isis via Ankara. Gli Stati uniti giocano allo scaricabarile: a comprare il petrolio rubato è il presidente siriano Assad. «Milioni e milioni di dollari di commercio – dice Adam Szubin, sottosegretario del Terrorism and Financial Intelligence del Dipartimento del Tesoro – Uno ha quello che serve all’altro: Damasco ha il denaro e l’Isis il petrolio».

Nessun dettaglio né prove sul fantomatico business che vuole distogliere l’attenzione dall’amico turco, strenuamente difeso dal Dipartimento di Stato dopo la nota conferenza stampa del Ministero degli Esteri russo che, immagini satellitari alla mano, aveva puntato il dito sulla famiglia Erdogan.

A rileggere la storia dei rapporti tra famiglia Assad e islamisti le accuse di Washington paiono difficili da accogliere, soprattutto alla luce del conflitto tra Damasco e il sedicente califfato. Ma tant’è: ognuno porta acqua al suo mulino finendo per confondere reti di alleanze che sembravano scontate.

Maestro in quest’arte è Vladimir Putin che prosegue dritto per la strada degli interessi russi in Medio Oriente, mettendo in riga gli alleati assodati e inventandosene di nuovi. Il giorno dopo il meeting delle opposizioni a Riyadh (a cui Assad ha risposto dicendosi «pronto al dialogo con gli oppositori, non con i terroristi»), il presidente russo ha svelato il supporto all’Esercito Libero Siriano, primo avversario del governo. Dopo essere stato accusata dagli Usa di colpire le opposizioni moderate invece che l’Isis, Mosca apre al figlioccio dell’Occidente che, dice Putin, fornisce informazioni alla sua aviazione: «Circa 5mila uomini sono impegnati contro i terroristi, di fianco alle forze regolari, ad Homs, Hama, Aleppo e Raqqa. Li sosteniamo dal cielo, così come facciamo con l’esercito siriano, e con armi e munizioni».

La doppia politica di Mosca fa la sua prima vittima: l’Iran. L’intervento russo in Siria sembrava aver rafforzato Teheran sul piano diplomatico e politico. Ma a due mesi dall’inizio della campagna aerea il ruolo iraniano si è pericolosamente ridotto. I primi segnali erano stati lanciati pochi giorni prima del via all’operazione russa, quando Mosca si affrettò a rassicurare Israele sul sostegno a Iran e Hezbollah. Giovedì la notizia, riportata da Bloomberg View, del presunto ritiro di 6mila delle 7mila truppe iraniane in Siria, ufficialmente per l’impatto tra le fila delle Guardie Rivoluzionarie: troppi morti e troppi feriti (tra cui pare il generale Suleimani) da far digerire all’opinione pubblica.

Ma dietro ci sono differenze di vedute tra alleati di convenienza sul futuro regionale, a partire dal destino di Assad, intoccabile per Teheran ma sacrificabile per Mosca. E gli obiettivi a lungo termine non combaciano: l’Iran punta a rafforzare geograficamente e politicamente l’asse che passa per Baghdad e Damasco e termina con Hezbollah; la Russia vuole imporsi come super potenza, avere accesso al Mediterraneo e garantire i rapporti con futuro governo siriano, Israele e Golfo.

Per farlo deve costringere l’Iran ad un ruolo da comprimario. Si parte dalla base aerea di al-Shayrat, a est di Homs, prima quartier generale di Hezbollah e pasdaran: ripulita dalla presenza iraniana, è ora sotto il controllo russo. Allo stesso tempo Mosca sta ristrutturando le forze siriane: il comando russo in Siria avrebbe ordinato ad Assad di integrare nell’esercito regolare le Forze di Difesa Nazionale, unità paramilitari volute dall’Iran e create dal generale Suleimani.

Oggi la principale forza militare in Siria è quella russa la cui efficacia aerea ha offuscato l’apporto dell’Iran che su Damasco ha investito moltissimo, sia in termini militari che finanziari, inviando uomini e tamponando la crisi economica dovuta alla guerra civile. Non può non reagire.