La lettura del suo ultimo libro, Favole del morire (Laurana, pp.155, euro 14), ha rafforzato un’idea che avevamo da tempo: Giulio Mozzi, oggi, in Italia, è probabilmente uno degli scrittori più sperimentali conosciuti, da apprezzare per l’assidua ricerca letteraria che sta facendo. Nonostante sia e sia stato editor di alcune delle maggiori case editrici nazionali e tenga regolarmente da anni corsi di scrittura creativa in tutta Italia, – nonostante, cioè, Mozzi conosca alla perfezione le regole, i segreti e i trucchi della narrazione, compresa quella più affabile e commerciale, – dall’inizio della sua carriera di scrittore fino ad ora, segue una delle linee di ricerca tra le più autentiche e coerenti. In questa sua ultima raccolta di «pezzi» – come lui stesso, non a caso, li chiama, come fossero composizioni poetiche o musicali – concede ancora meno al lettore che nelle sue precedenti raccolte e rimane assiduamente fedele e concentrato su se stesso e sulla sua scrittura. E ne è perfettamente consapevole.

«Non sono quasi più capace di scrivere in un modo normale», ammette nella prima pagina del libro. A cosa allude, questa presunta mancanza di «normalità»? Probabilmente proprio a una facile leggibilità. La prima cosa che salta, qui, è il plot narrativo, la trama. Nessun libro di Mozzi, tanto meno questo, assomiglia ad una sceneggiatura più o meno approfondita, come accade alla maggior parte dei libri di successo del mercato letterario globale. Ma qui si arriva all’osso: non c’è quasi mai evoluzione narrativa. Tutto è fermo. Immobile e in movimento. Tutto è pura scrittura. Senza mai essere esercizio linguistico fine a se stesso.

Favole del morire raccoglie testi d’occasione di varia estrazione – poesie, recitativi, monologhi, invocazioni, testi teatrali, canzonette, novelle, eccetera – legati tra loro da un tema letterario «forte» per eccellenza: il morire, non la morte. E di fatto si parla dell’impermanenza del corpo e delle emozioni. Un tema che farebbe tremare i polsi a ogni scrittore, tanto è facile il pericolo della retorica e del già detto, nell’occidente cristiano come in oriente. Ma che Mozzi affronta con naturalezza e dinsinvoltura, proprio perché intrinseco alla sua stessa scrittura, in qualsiasi maschera stilistica essa scelga di manifestarsi. Una scrittura che è sempre densa, necessaria, irresistibile, testamentaria, fortemente esistenziale, – a tratti anche esistenzialista, ammettiamolo, – lontana anni luce da ogni discussione provinciale tra fiction, no-fiction o auto-fiction. E i riferimenti letterari da cui trae nutrimento sono, a seconda delle occasioni, i più diversi. Mozzi non ha alcuna paura di dialogare apertamente con i morti: compresi i mostri sacri della letteratura di ogni tempo, «minori» compresi, che a lui non devono poi risultare così «minori»: dal Giacomo Leopardi delle Operette morali alla poesia barocca, da alcune esperienze poetiche della neoavanguardia alla Bibbia, da Thomas Bernard a Samuel Beckett, dalle canzonette giocose in rima ai testi religiosi del Vecchio Testamento, piuttosto che al Nuovo.

Nel 1998, al termine del Male naturale, Mozzi annunciava: «Credo che Il male naturale sarà il mio ultimo libro di racconti o almeno che, d’ora in poi, lo scrivere sarà per me una cosa completamente diversa». Favole del morire avvera questa autoprofezia. Mozzi non pare essere più interessato a diventare uno scrittore diverso da quello che è ed è sempre stato. Si prende l’autorevolezza e il lusso di sbarazzarsi del pubblico della poesia e della narrativa di oggi, editor compresi, per sintonizzarsi soltanto sul ritmo del suo respiro e del suo avventuroso immaginario. E dà vita al suo libro più difficile ma forse anche più bello. Dove la descrizione minuziosa del disfacimento progressivo dei corpi e delle stesse storie di cui i corpi, umani e animali, dovrebbero essere portatori, – storie sempre più assurde, sempre più impossibili da definire, raccontare, condividere – diventano l’allegoria – a volte tragica, ma altre anche allegra, ironica, scanzonata – di una società proiettata sempre più irrimediabilmente verso la propria morte, materiale e spirituale.