Quale potrebbe essere il disco più raro e «impossibile» della storia? Ad esempio qualcosa che arrivasse da uno di quei limbi inquieti e mobili del passato in cui si formavano nuovi agglomerati di note poi chiamati «jazz». Per dire: non la primissima registrazione di Louis Armstrong al fianco di Joe «King» Oliver, ma un clamoroso cilindro di cera inciso ai primi del Novecento dal leggendario Buddy Bolden. Che nella vita non incise una sola nota, con la sua cornetta (pare) potentissima, che si sentiva da un isolato all’altro di New Orleans, e morì da tranquillo pazzo alienato, come Syd Barrett dei Pink Floyd nel suo giardino. Di certo , per uno di quei paradossi di cui abbonda la fisica quantistica, e tutto il variegato reame dell’indeterminazione che ne consegue e la affianca, il disco più improbabile e raro della storia potrebbe arrivare dal futuro. Qualcuno ci ha già, pensato, davvero,ed ecco, a disposizione di chi vorrà provare l’esperienza, un cd nei negozi che raccoglie canti, riti, musiche e suoni naturali di un popolo, i Kesh, che vive ( anzi: vivrà) nella California settentrionale in un futuro molto lontano da noi. Dove l’ apocalisse del «Big One» forse c’è già stata, ma ha lasciato tracce remote e non più distinguibili. Al più può essere rimarcato che la California del futuro ha molta meno terra di quella attuale, essendo parzialmente sommersa dall’oceano. È un mondo comunque segnato dalla nostra presenza attuale, che ha lasciato qualche scampolo di tecnologia e qualche attrezzo, ma molto, molto diverso.

MISTERI
A questo punto si può cominciare a sciogliere il mistero, musicale e non, del cd che arriva dal futuro. Il 22 gennaio di quest’anno a Portland , Oregon, è morta alla ragguardevole età di 89 anni l’immensa scrittrice di fantascienza libertaria, pacifista e femminista Ursula Le Guin. Era figlia dell’antropologo Alfred Luis Kroeber, cattedra alla Berkeley University, e della scrittrice e anch’essa grande antropologa Teodora Krakaw, che raccolse i racconti di molti popoli nativi della California. Da entrambi i genitori, radical tutt’altro che chic, e interessati a crescere i propri figli senza pregiudizi, Ursula prese qualcosa. Senza’altro, e è un dato di quasi ovvia rilevanza, l’amore, il rispetto e la conoscenza delle altrui consuetudini di vita, a cominciare dalle residue tribù di nativi americani, gli indiani, e il fatto che una penna o una macchina per scrivere sono armi potenti, se vuoi narrare storie dove sbalzino fuori i costumi delle persone.
Molto lo imparò nelle lunghe estati libere e anarchiche vissute a Kishamish, un ranch pressoché fatiscente, ma estremamente affascinante per una bambina curiosa nella Napa Valley, a Nord della baia di San Francisco. Da lì passavano scienziati e libertari, indiani che sapevano di antiche cosmogonie e antropologi, strani beatnik ante litteram e tanti bambini. Ci passava anche lo scienziato Oppenheimer. Ursula Le Guin cominciò a sognare e scrivere di altri mondi e altre genti a nove anni. A undici propose un suo racconto ad Astounding Stories, rivista popolare di fantascienza tra le più note, negli States. Da ragazza studiò letteratura francese e italiana, e forse lì acquisì un ulteriore gusto per altri mondi da raccontare, immersa com’era nel gran flusso di racconti del suo periodo più amato, il Rinascimento.
Ursula Le Guin, come tanti scrittori, ebbe all’inizio molti rifiuti. Ma quando cominiciò ad ingranare, tenne due rotte ferme e ben distinguibili, nella sua produzione non fluviale, ma certamente assai estesa: da una parte i cicli fantasy come quello di EarthSea, largamente debitori dei mondi immaginati da Tolkien, dall’altra la fantascienza sociologica, antropologica, psicologica, in cui il racconto sul futuro di «altre» popolazioni è specchio inquieto e mobile del nostro presente. Con la progressiva maturità, sbalzano fuori con magnifico anticipo sui tempi i temi libertari, ambientalisti, pacifisti.
Forse c’era anche un po’ di destino, se è vero che alle superiori spesso si trovò fianco a fianco con un giovanissimo (allora) Philip Dick, futuro peso massimo della fantascienza. Ma veniamo al «disco del futuro». Nel 1985 Ursula Le Guin fece uscire il suo libro capolavoro Always Coming Home, tradotto in Italia come Sempre la Valle. Cinquecento impegnative pagine che descrivevano la vita e le abitudini dei Kesh, una immaginaria etnia californiana del futuro. La prima sezione, narrata da una donna che si chiama Stone Telling, Pietra che Narra, narra l’infanzia della donna nella pacifica, tollerante e anarchica comunità dei Kesh, seguita dalla vita col padre nella comunità cittadina Dayao, fatta di gente militarista, gerarchica, competitiva. La seconda sezione narrata da Pandora, una sorta di antropologa del futuro, comprende saggi sull’articolazione della lingua e la cultura dei Kesh, storia e leggende, mappe geografiche, ricette, spiritualità, poesie, musiche. E qui arriva il disco del futuro. Perché la perfezionista Ursula Le Guin volle accompagnare Sempre la Valle con un’audiocassetta che riportava musiche e poesie dei Kesh. La voce narrante, attribuita nella cassetta a Little Bear Woman ( l’Orsetta) era naturalmente la sua. In più c’erano musiche e canti, e molti «rumori ambientali» che, come si direbbe oggi, restituivano il «soundscape», il paesaggio sonoro in cui vivevano i Kesh. Colti invece dal fiume accanto alla casa della Le Guin, e dagli immensi falò in cui Le Guin e il compositore discutevano della costruzione delle musiche.

COMPAGNI DI VIAGGIO
Ursula Le Guin scelse come compagno di viaggio il musicista e compositore sperimentale Todd Burton, uno specialista di elettronica tutt’ora attivissimo capace anche di dar vita materiale a strumenti immaginari del futuro dei Kesh come il Doubure Binga, un insieme di nove bocce di ottone intonate percosse con mazzette rivestite, lo Houmbùta, un enorme strumento a fiato, il Wéspoai Medoud Teyahi, un flauto d’osso di cervo, agnello, e con una scheggia d’osso dalla coda del gatto come ancia.
Per una sorta di iper-correttismo antropologico, sia il compositore sia la scrittrice decisero di eliminare da usi e costumi dei futuri Kesh ogni riferimento ai Tolowa, la reale tribù nativa delle terre in futuro immaginate come sede dei Kesh. Burton si trovò invece a comporre le musiche prendendo a riferimento i due numeri cardinali e magici che nel racconto della Le Guin strutturano la comunità Kesh: il quattro e il cinque, in pratica una sorta di superfetazione delle due cellule ritmiche primordiali di derivazione afroamericana, il due- tre.
Ne derivarono canzoni intrise di una strana, primordiale felicità di stare al mondo, un universo pacificato in cui si staglia la strana, ma verosimile lingua del futuro inventata da Ursula, in fin dei conti non così lontana da analoghi esperimenti tentati da Meredith Monk, dai Sigur Rós, da Elizabeth Fraser. E da suoni che percorrevano o avrebbero percorso i Dead Can Dance, i Cocteau Twins, Jon Hassell.
Scomparsa da molti anni, e diventata oggetto del desideri per collezionisti di «weird music» sparsi per tutto il globo, ora la cassetta The Music and Poetry of the Kesh, dopo opportuni restauri torna in circolazione, etichetta Freedom to Spend. È reperibile come ellepì in vinile, come digital download e come cd. Note di copertina a cura di Moe Bowestern. Accomodatevi accanto al fuoco, ad ascoltare la Califonia pacifista del futuro: «Stechab hwana / ambad hwana / dambad hwamab / wegena ówoi / gedaó yenah».