Una suora di nome Edda ha affisso sulla porta di un asilo nido a Ischia questo avviso: «Si comunica che domani 05/09/2013 la scuola è chiusa per tutti perché c’è la giornata per i disabili…sono molto malati quindi i bambini si impressionano». Un giornale nazionale ha dedicato un servizio al suo caso. Il giornalista incaricato prima l’ha discolpata («una gaffe determinata dal desiderio in buona fede di evitare situazioni di disagio») e poi le ha assegnato un premio (e «una carezza, un abbraccio fraterno») perché «nella sua cialtroneria lessicale ha scritto un’amara verità».
Il premiatore è anche prodigo di consigli: bisognerebbe «costruire una cultura dell’accoglienza e della normalità». Un bell’ossimoro che il giornalista (alle prese con la propria aggressività misconosciuta) crede di poter superare, proponendo di non concentrare i disabili in gran numero («quasi una selezione della specie»), solo per precipitarci dentro in modo inappellabile e definitivo: «è quando la disabilità si fa quasi invisibile che riesce a far breccia anche negli ambienti più refrattari, come qualsiasi corpo estraneo». L’invito finale: «Non prendiamocela con lei. Guardiamo dentro di noi».
Il problema di questo efficace rappresentante di una parte del paese armata di buone intenzioni e affetta da cattiva fede è proprio questo: non può guardare dentro, preferisce guardare fuori e tutto ciò che vede di perturbante (perché gli ripropone ciò che non vuol vedere in se stesso) è necessario che diventi invisibile.
Suor Edda si è difesa dicendo che in una precedente occasione vedendo i disabili i bambini avevano pianto con grandi proteste dei genitori. Spesso la nostra percezione della realtà «attacca l’asino» dove la nostra paura vuole. Ciò che turba i bambini alla vista della disabilità sono l’ansia e l’aggressività degli adulti. Il legame con i prodotti organici (saliva, feci e urine), usati nella prima infanzia dal bambino come regali d’amore, dono di qualcosa di sé all’oggetto amato, negli adulti è rimosso, mediato dal disgusto e sottoposto a controllo, spesso malfunzionante nei disabili: è la limitazione della spontaneità richiesta dalle relazioni sociali.
Inoltre, l’essere adulti non ci protegge dai vissuti di imperfezione che lo sguardo dei nostri genitori ci ha creato, specialmente se pretendevano che fossimo l’oggetto ideale della loro consolazione. Portiamo tutti un vissuto di menomazione mai del tutto risolto: la ferita narcisistica di aver visto non riconosciuta e quindi rigettata una parte di noi, soprattutto se si tratta di quella più spontanea e viva. Proiettiamo questa parte sui disabili per rifiutarla. E quando sosteniamo un contatto prolungato con loro, l’antica apprensione di essere delle creature incompiute (che la rabbia trasforma in mostruose) riesplode. Il pudore ci protegge dalla crudeltà con cui trattiamo ciò che di nostro rigettiamo nell’altro perché ostacola la trasformazione dell’impotenza nell’arroganza dell’autoreferenzialità e ci consente di sostare nell’imbarazzo per scoprire come nostra verità la ferita visibile dell’altro.
Suor Edda ha compiuto un gesto spudorato.