Una riflessione su cosa si è, su cosa sia l’identità, sul come porsi nel mondo, in mezzo gli altri, nella società (Arianna di Carlo Lavagna racconta la storia della scoperta a posteriori, da parte della protagonista, del proprio ermafroditismo al momento della nascita). Una ragazza di quasi vent’anni non si capisce, non capisce i suoi istinti, cosa desidera, chi desidera. Se le piace guardare il corpo femminile della cugina o quello maschile imberbe del suo coetaneo. Quesiti irresolubili che restano insoluti.

La protagonista (interpretata da una mimetica Ondina Quadri) si aggira tra i fotogrammi della pellicola, tra gli istanti della sua vita, con uno sguardo puro di ragazza? ragazzo? entrambi? nome comune di persona, singolare, senza genere, il numero è l’uno ma è femminile e maschile insieme o neutro come in latino? Come declinare l’aggettivo accanto al sostantivo? Questo il dilemma. Qui non vengono fornite soluzioni. Perché è una storia vera. Forse finita male. Non so, ho preferito non saperlo.

Nel vedere questo film chi è genitore (ma anche chi non lo è) non può esimersi dal domandarsi cosa avrebbe fatto al posto della madre o del padre davanti alla potenzialità della doppia opzione. Essere catapultati nel ruolo di Creatore. Avere un compito tanto arduo quanto il delineare la scelta di campo sessuale di tuo figlio. Non credo possa esistere qualcosa di più disarmante. E se uno dei due genitori è un medico, un uomo che ha preferito la scienza alla fantasia (come in questo caso), il delineare una traiettoria così definitiva nel destino di un altro essere umano deve dare in qualche modo alla testa, è facile possa portare alla follia come il dottor Frankenstein (che pecca di onnipotenza e produce il mostro).

Penso che nessuno (nessuno al mondo mai) possa acquisire – ricevere donare guadagnare – in una sola vita gli strumenti sufficienti per sostituirsi a Dio (che poi non esista è un altro paio di maniche). Ed è bene che sia così. Non importa che i genetisti (o i moralisti o i benpensanti o i cattolici pro life) pensino di poter intervenire in una direzione o nell’altra, su questo punto.

Mi sto contraddicendo? Forse, ma penso di no. Mi dichiaro assolutamente e totalmente favorevole alla fecondazione assistita, al concepimento in vitro di bambini per chi non ne ha la possibilità in altro modo, per superare malattie genetiche, problemi di infertilità, sterilità.

Ma non mi piace immaginarci tutti costruiti a tavolino, perché “ci piacciono di più gli occhi blu e le mani sottili per la nostra prima bambina, così potrà studiare pianoforte, ma per il secondo, che sarà un maschietto, vorremmo solo che superi l’uno e novanta perché le nuove generazioni sono tanto alte, si sa”. Un mondo così mi fa pensare a 2001: Odissea nello spazio (Stanley Kubrick, 1968), a Frankenstein junior (Mel Brooks, 1974), a Il villaggio dei dannati (Wolf Rilla, 1960), a The Rocky Horror Picture Show (Jim Sharman, 1975). Chi mai vorrebbe vivere in uno di questi film? Voi si? Io no.