«La Resistenza perfetta» di Giovanni De Luna, appena pubblicato da Feltrinelli (pp. 254, euro 18), racconta i venti mesi di lotta partigiana (tanto durò la Resistenza) dall’interno della mura del Palas, una grande casa patrizia a Villar, frazione di Bagnolo Piemonte, a mezza via fra la pianura e la montagna, di proprietà dei conti Malingri. Qui, fra il 1943 e il 1945, abitavano il conte Vittorio Oreglia d’Isola e la contessa Caterina Malingri di Bagnolo, insieme ai figli Leletta e Aimaro, studenti liceali. Qui, durante quei venti mesi, vennero ospitati i partigiani comunisti della I Divisione Garibaldi Piemonte, il cui capo riconosciuto era l’avvocato siciliano Pompeo Colajanni, nome di battaglia Nicola Barbato.

Attraverso le parole del Diario di Leletta, in gran parte inedite, La Resistenza perfetta descrive non solo questa convivenza fra aristocratici (cattolici) e comunisti, all’interno del Palas, ma anche ciò che contemporaneamente accadeva fuori, sulle montagne, nelle vallate, fra i boschi. Dentro, due mondi all’apparenza inconciliabili dialogavano fra loro, annullata ogni distanza nella concretezza della quotidianità e nella condivisione di valori comuni. Fuori, si combatteva, si uccideva, si moriva; e nello scorrere delle stagioni la Resistenza mutava intanto forma a sua volta, dallo spontaneismo iniziale alla successiva organizzazione, via via sempre più matura e consapevole.

La descrizione della Resistenza nei suoi caratteri generali e nell’evoluzione delle fasi che l’hanno caratterizzata conferisce al libro di De Luna la natura di saggio storico a tutti gli effetti: ogni cosa è calata precisamente nel proprio contesto, ogni fatto inscritto dentro le rispettive categorie di riferimento (l’8 settembre, i Comitati di Liberazione, i partiti politici e la Chiesa, la Repubblica di Salò, il Governo di Badoglio, l’arrivo degli Alleati, il proclama Alexander, la Liberazione). Ma La Resistenza perfetta è anche un libro intimo, nel quale la Storia si fa viva e concreta, perché attraverso il Diario di Leletta vediamo sfilare persone in carne e ossa, partigiani e fascisti: da Barbato a Emanuele Artom, al tenente Martelli, a Natale Spirito Novena.

Il racconto assume il volto (come nel caso di Artom), i pensieri, gli umori di ciascuno di loro. Ne seguiamo i destini, spesso tragici, e Leletta registra tutto: gli eventi, piccoli e grandi, ma anche le singole conversazioni e le proprie emozioni e sensazioni. È curiosa degli altri, delle loro visioni del mondo, delle idee diverse dalle sue; e si interroga, indagando incessantemente se stessa in profondità. Attraverso il suo Diario la Resistenza assurge a fenomeno esistenziale tout court; ed è questo il profilo intimo che rivela il senso più vero del libro.

Proprio grazie alla sua viva concretezza, infatti, la vicenda di Leletta conferma in primo luogo il valore della Resistenza come mito fondativo della nostra storia repubblicana, contro i tentativi in voga da alcuni anni di disconoscerla come tale. De Luna dà atto che i giorni successivi alla Liberazione erano stati giorni di violenza, durante i quali era fluito anche molto «sangue dei vinti», e più in generale riconosce che la Resistenza ha conosciuto anche episodi drammatici.

Ma la realtà, osserva, è che i giorni successivi alla Liberazione avevano rappresentato un «interregno», quale «puntualmente emerge nella fasi di passaggio, quando nel vuoto di potere lasciato dal crollo del vecchio ordine e nell’attesa che si ricostruisca quello nuovo, la violenza si scatena sulle macerie della legalità» (di recente, anche Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano, in Un’odissea partigiana, hanno sottolineato che «il ritorno alla pace è turbato da vendette e ritorsioni che da sempre accompagnano la caduta delle dittature»); e rimane il fatto che quella di Leletta è stata appunto una «Resistenza perfetta», nella misura in cui la perfezione può appartenere solo alle «esperienze esistenziali degli uomini e delle donne che la vissero e la costruirono».

In secondo luogo, la vicenda di Leletta sembra confermare anche l’affermazione della Resistenza come occasione mancata, che sempre De Luna aveva già compiuto, in termini astratti, in libri precedenti. In particolare, la tesi della Resistenza come occasione di dotare il nostro Paese di una «religione civile» era al centro di Una politica senza religione (Einaudi, 2013): se il nostro Paese, sosteneva De Luna, è privo di un universo di simboli e di valori nel quale sia possibile riconoscerci e ritrovarci aldilà di qualunque pulsione all’individualismo, è anche perché nel dopoguerra non abbiamo saputo elevare a rango di valore condiviso l’impegno teso alla costruzione di una democrazia inclusiva, nella quale ciascuno si sentisse coinvolto.

A prevalere, al contrario, era stato l’atteggiamento di coloro che Daša Drndić, nel suo splendido Trieste, definisce bystander: coloro che rappresentano simbolicamente la «zona grigia», il disimpegno, una tranquillità inerme e compiaciuta. Tutto avrebbe potuto essere diverso, sembra voler aggiungere ora De Luna, se avesse avuto la meglio un altro spirito: quello del Palas dei conti Malingri, quello di Leletta e di Nicola Barbato, uniti pur nelle differenze, oltre ogni barriera ideologica e sociale.