Eh sì, ammettiamolo, «la bella Verona» è importante nel canone shakespeariano. Di solito si pensa a Giulietta e Romeo – la tragedia veronese –, sebbene sia giusto ricordare anche I due gentiluomini di Verona, una commedia, con l’aggiunta, perché no, della brillantissima Bisbetica domata (anch’essa tradotta da Perosa per Garzanti), ambientata a Padova, con un Petruccio, il domatore di Caterina, che sosta in quell’agiato comune solo per caso, ingarbugliandosi nei capricci di una giovane bislacca, munita di ricca dote. Petruccio infatti arriva a Padova squattrinato e cencioso dalla sua città natale che è, appunto, Verona. Chi legge il testo o assiste alla rappresentazione, vedrà che Petruccio non ha imparato nulla sull’amore dal concittadino Romeo. Ma neanche Caterina è una Giulietta.
Shakespeare s’è creata parte della sua fortuna anche grazie a Verona, una delizia di città (per lui, si noti: «della Scala»), che egli ebbe a conoscere tramite autori coevi italiani da cui trasse molte delle sue storie e, nel caso di Giulietta e Romeo, da un pometto elisabettiano di Arthur Brooke, The Tragical History of Romeo and Juliet, un po’ diverso negli esiti e che, mi pare, in obbedienza al codice puritano vigente, disapprovi una Giulietta troppo osé e condanni entrambi gli spudorati amanti per «impudicizia».
Adesso però sappiamo tutto su Shakespeare e Verona, perché l’illustre Sergio Perosa ha improvvisamente cambiato mestiere. S’è fatto detective, alla ricerca di prove e evidenze delle segnature logistiche e contestuali della «eccellentissima e lamentevole tragedia di» Giulietta e Romeo (Cierre Edizioni, pp. 163, e 14,00), che egli cura e traduce in «versione rimata» (si noti il gesto cavalleresco dell’inversione nel titolo: «una violenza», nel rispetto delle fonti italiane), e ciò in omaggio anche al recente gran gala allestito per il Bardo.
In quest’occasione, Perosa ha voluto numerosi materiali aggiuntivi: «Approfondimenti», «Note al testo», un «Itinerario veronese» di Gianni Moriani, e tante, tante fotografie, incisioni, piccoli dettagli congelati da uno scatto di fresco, e ben altro, tra cui spiccano la cripta dove sarebbe stata sepolta Giulietta, sedata dal filtro, la casa di Giulietta con il balconcino, garantita nel 1935 (l’ho vista anch’io, incantata dal cortiletto), lo stallo delle Arche, dove sarebbe stata la casa di Romeo, gli ameni paesaggi del Soave, e infine Montecchio Maggiore, terra dei castelli di Giulietta e di Romeo. Così si dice, e così dice il nome (di Romeo).
E veniamo al prof. Perosa, esperto shakespeariano, con il suo carnet di traduzioni e di interventi, anche all’Olimpico di Vicenza negli anni settanta, su come innovare – dopo i vari Vico Lodovici, Praz, Baldini – la traduzione dei drammi del nostro protagonista in un italiano svelto e, soprattutto, in un ritmo adatto al nostro teatro. E poi, il Perosa «americanista». Chi non ha letto il, e imparato dal, suo F. Scott Fitzgerald, che andrebbe ristampato, perché ormai introvabile?

E ora ecco Giulietta e Romeo. Nell’«Avvio» è l’amore a prima vista il tema guida, l’«insorgere della carne», come in Amleto per Gertrude e Claudio, e l’«insorgere della passione e dell’intrinseca connessione che stabilisce fra amore e morte». Eppure, precisa Perosa, non si tratta del «Liebestod dei romantici e dei decadenti, bensì fin dall’inizio ‘l’amore segnato dalla morte’: come un’intrinseca sovrapposizione di due motivi, che viene sugellata nell’atto finale».
La tragedia inizia, come si sa, con un Prologo, un sonetto perfetto, per poi introdurci nelle strade di Verona, dove incontriamo due famigli dei Capuleti, armati di spada, pronti a sguainare lo «strumento» (nel doppio senso: «e si sa che ho un bel tocco di carne») al primo vedersi di un Montecchi o una Montecchi: «e infatti le donne vengono sempre sbattute al muro». Il dissidio tra i due casati è all’apice. E qui la lingua da aulica scade in soluzioni basse, sorprendenti, allitterative: «Sì, finché campi, tien fuori la crapa dal capestro». Questo è uno spuntino.
Il meglio viene con l’entrata di Mercutio e la Regina Mab. I suoi giochi sono infiniti, nel mentre che con lingua arguta, spada e coltello, Murcutio cade ferito a morte per mano di Teobaldo, promesso a Giulietta.
La tragedia, iniziata come commedia di parole, comincia adesso. L’arguzia passa la mano alla poesia e agli intrighi di una balia e gli infusi di un frate cappuccino. Ma Romeo è già deciso: «Amen, amen, ma qualsiasi pena arrivi / non può controbilanciare quella gioia / che un breve minuto mi dà della sua vista. / Unisci le nostre mani col sacro rito, / poi la morte che divora l’amore faccia / quel che vuole: a me basta poterla dire mia». Sì, dice il frate, ma attenzione, «Queste gioie violente hanno fine violenta / …/ il miele più dolce stomaca per la dolcezza».
La storia è nota. Si è voluto dare un saggio del nuovo testo in italiano, che funziona egregiamente, fino al distico finale, mirato a rendere giustizia a chi è più titolare dei due immortali adolescenti, vittime d’Amore.
La parola ultima è lasciata al Principe della Scala: «Alcuni saranno perdonati, altri puniti. / Perché mai ci fu destino così reo / come questo di Giulietta e del suo Romeo». Un distico finale perfetto.