Non sono passati molti anni da quando, nel corso di un provvido intervento esplorativo per un costruendo parcheggio sotterraneo in via Urbana a Roma, gli archeologi rinvennero un ambiente stracolmo di cocci che per forma e decorazioni dovevano datarsi al diciottesimo secolo. Alla sorpresa subentrò l’entusiasmo, quando fu chiaro che quella venuta fortunosamente alla luce era nientemeno che la fabbrica di Giovanni Volpato. Oggi il suo nome dice poco al grosso pubblico, ma nell’ultimo quarto del Settecento era noto in tutta Europa.
Originario di Bassano del Grappa, Giovanni Trevisan, detto Volpato, fu una singolare figura di artista-imprenditore. Affermatosi come incisore (fu molto apprezzato anche da Caterina II di Russia), e come antiquario, ebbe a un certo punto un’idea brillante: era l’epoca d’oro del Grand Tour, e tutti coloro che venivano a Roma ambivano a riportare in patria qualche souvenir del loro soggiorno; ma non tutti avevano i mezzi di Gustavo III di Svezia, che gli aveva acquistato l’intera serie delle statue in marmo delle Nove Muse, da lui stesso scavate e fatte restaurare. Perché allora non produrre delle repliche delle più celebri statue dell’arte classica visibili a Roma (quelle che Winckelmann avevano eretto a paradigma della bellezza) in scala ridotta e a prezzi contenuti, per una clientela desiderosa di esibirle in patria come testimonianza di buon gusto e suggello di un’educazione superiore?
Forte di una ‘privativa’ concessagli dal papa, Volpato avviò dal 1786 una manifattura ceramica che riproduceva in serie capolavori come l’Apollo del Belvedere, l’Ares Ludovisi o il Galata Morente. Il materiale usato fu prevalentemente il bisquit, la porcellana priva del rivestimento translucido dato da una seconda cottura, che perciò aveva tutta l’apparenza del marmo. Il successo fu enorme. Chi non poteva acquistarli personalmente nella fabbrica o nel negozio-esposizione di via del Babuino, poteva ordinare i pezzi tramite cataloghi in inglese (un advertisement uscì anche sul Times di Londra) e in francese.
Dell’officina di via Urbana sono stati scavati solamente una settantina di metri quadri, che però hanno restituito non meno di 12.000 frammenti. Una significativa selezione è ora esposta in una mostra progettata da Mirella Serlorenzi insieme ad Antonio Pinelli, che rimarrà aperta fino al 7 aprile nelle sale del museo della Crypta Balbi in via delle Botteghe Oscure (un museo nato anch’esso da uno scavo urbano). Accanto ai prodotti più artistici, che però vengono perlopiù da musei (da quelli capitolini o – nel caso del monumentale dessert di Bacco e Arianna – da quello di Bassano del Grappa), sono esibiti molti vasi da tavola dall’elegante design e alcuni interessanti strumenti di produzione, tra cui matrici in gesso e contenitori in materiale refrattario per la cottura.
La mostra cerca anche di contestualizzare l’attività di Volpato allargando il discorso ad altri prodotti dell’industria romana del souvenir, come i bronzetti (famosi quelli di Zoffoli, Valadier e Righetti), i micromosaici a soggetto classico e i modellini in sughero dei grandi monumenti di Roma. Né manca il riferimento ad altre produzioni ceramiche classicheggianti, come quelle dalla manifattura che il marchese Ginori aveva fondato a Doccia nel 1736 e quelle che Josiah Wedgwood produsse in Inghilterra a partire dal 1759: complessivamente un progetto espositivo coerente, realizzato in maniera apprezzabile.
Ma su questo progetto se ne è innestato un altro, che vorrebbe essergli organicamente collegato, senza riuscirci troppo. Il filo rosso che viene indicato è quello della serialità. Per seguirlo è stata allestita una sezione apposita nella sede museale di Palazzo Massimo. Il titolo – che vorrebbe apporre un unico cappello su una mostra sostanzialmente ancipite – è: Il classico si fa pop. Di scavi, copie e altri pasticci. Ma è un titolo che si adatta assai più a questa seconda sezione che non alla prima. Qui si racconta – per flashes – la storia della copia di opere d’arte a partire dal mondo antico, dove non era questione né di diritto d’autore né di scrupolo filologico. Viene proposto come emblematico il caso del Discobolo di Mirone, di cui non conosciamo l’originale ma del quale ci sono arrivate una ventina di copie, più o meno rielaborate. Cinque di queste sono esposte in un allestimento realizzato da NONE collective, un gruppo di artisti transmediali che si serve qui di colori e ombre per esplorare i confini tra realtà e artificialità, individualità e molteplicità (lo stesso fa con le statue dei due Tirannicidi, poste al centro di un gioco caleidoscopico di specchi). Lo scontato riferimento alla serialità delle icone di Andy Warhol dovrebbe giustificare l’uso del termine pop, ma il confronto col discobolo filmato da Leni Riefenstahl e con quello fotografato da Mapplethorpe porta piuttosto verso altre direzioni. Né risulta agevole applicare una stessa etichetta – a meno di non restare nella genericità della contaminatio o del pastiche – sia al video di Francesco Vezzoli in cui una sensuale Eva Mendes offre un pendant assai meno algido alla Paolina Borghese di Canova che all’autoritratto dello stesso Vezzoli che ‘dialoga’ con affettuosa ironia con l’Apollo del Belvedere. L’impressione è che si sia voluto approfittare della mostra su Volpato per abbozzare un discorso sulle copie che avrebbe meritato di essere approfondito in una mostra a sé. Basti pensare a come avrebbe potuto essere sviluppata l’affermazione di Pinelli relativa agli «antenati illustri delle statuine della torre di Pisa o del David di Donatello che troviamo sulle bancarelle».
Il catalogo pubblicato da Electa (€ 29,50) affianca a una serie di saggi che apportano nuova informazione (come quelli di Mirella Serlorenzi, Marco Ricci, Chiara Teolato) altri che riassumono piuttosto lo stato dell’arte (ma Pinelli lo fa comunque da par suo) e altri ancora il cui rapporto col tema specifico appare a dir poco molto tenue.