Nella costellazione del pensiero occidentale, Luce Irigaray ha un posto di primo piano e non solo perché è una delle più lucide e originali filosofe e interpreti della contemporaneità. La ragione poggia piuttosto sulla felice congiunzione di ricerca, scrittura, linguaggio e politica che in Irigaray sembra dettata da una stupefacente capacità di andare al nocciolo delle questioni. La sua riflessione, mappa multidisciplinare e generosa, si muove infatti con agio tra numerosi campi del sapere tutti decostruiti e letti a partire dalla differenza sessuale – pensiero quest’ultimo a cui la filosofa ha dedicato pazientemente la sua intera esistenza.

La si conosce fin dai primi anni Settanta, quando entrò nel dibattito teorico-politico con la radicalità di Speculum (1974) che le costò l’espulsione dall’École Freudienne allora diretta dal suo maestro Jacques Lacan. Al simbolico di quella esclusione, esito della cecità di una tradizione maschile che ha preteso onanisticamente di legittimare solo se stessa, Irigaray è tornata più volte. Eppure l’essere guardata con sospetto e viva preoccupazione, l’essere accusata di infedeltà proprio dalla comunità scientifica cui fino a un momento prima apparteneva, è stata forse la sua grande fortuna. E, insieme, la nostra visto che dallo strappo irriverente di Speculum fino ad oggi abbiamo avuto la possibilità di conoscere un’altra storia raccontata e decostruita tenendo conto della differenza sessuale.

Memoria e oblio
Au commencement, elle était è il suo ultimo libro, ora tradotto in Italia da Antonella Lo Sardo per Bollati Boringhieri con il titolo All’inizio, lei era (pp. 170, euro 15,00). Frutto di una lunghissima meditazione durata diversi anni, i cinque capitoli che lo compongono sono – quasi tutti – altrettanti interventi che la filosofa ha preparato in alcune occasioni di dibattito pubblico, da Rotterdam a Oxford passando per New York. L’idea del libro però la accompagna da molto tempo, prima della fine del XX secolo, scrive. Ugualmente vero è che già il titolo pressappoco lo custodiva e lo preannunciava nel 2006, nella sua prefazione al volume In tutto il mondo siamo sempre in due.

All’inizio, lei era fa il punto su una questione dirimente: l’inizio come origine in cui lei – o Lei – è natura, donna o Dea. Il luogo in cui si intravvede l’interlocuzione intorno a quell’inizio è il pensiero dei presocratici insieme ad altri luoghi rintracciabili nella cultura greca antica. In questa speciale posizione, la filosofa avvista alcune cruciali possibilità di movimento. Per esempio, richiamando l’attenzione su Empedocle, Parmenide e Eraclito riconosce nei primi due il ricordo di lei come inaccessibile e inconoscibile ma di cui pur sempre si trattiene la memoria. Quest’ultima, non ancora del tutto trasformata dal passaggio all’età classica, è l’opportunità di una riflessione ulteriore di quel tra-noi che, per Irigaray, pone le basi politiche stesse del vivere umano. In effetti, il problema si manifesta quando il vagheggiamento di quella presenza altra non trova posto nel logos; quando cioè quell’altra è una «certuna» indifferenziata e cade nell’oblio.

Alcuni maestri non trovano parole per dirla bensì affastellano numerosi vocaboli per controllarne l’irriducibilità. È in questo passaggio decisivo, sempre nell’alveo della cultura greca, che Irigaray ravvisa lo snodo tra l’andare e il fare ritorno. L’andirivieni non attiene tuttavia ad una geografia o a un possesso di cose, significa invece interrogare la propria genealogia ed esercitarsi all’autonoma autoaffezione – tanto per le donne quanto per gli uomini. Ciò viene spiegato attraverso due figure, distinte e oltremodo significative: Antigone e Ulisse. Della prima, di cui si è lungamente occupata in vari suoi scritti, principalmente da Speculum fino a Etica della differenza sessuale, sostiene il desiderio di vita a dispetto di altre interpretazioni che la vorrebbero come un’accecata adolescente in preda a pulsioni di morte o incestuose. In realtà, avverte Irigaray, Antigone nel tentativo di dare una opportuna sepoltura al fratello Polinice si fa portatrice di quella differenza sessuata – diversa da quella sessuale – che attiene all’ordine del cosmo e dei viventi. In questo senso il suo è un gesto insieme religioso e politico di estrema potenza. Ogni vivente infatti reclama un assoluto che non è il Dio inventato per sostituzione dagli uomini ma la fedeltà a se stesso. L’ordine impartito da Creonte è contrassegnato da un non decidere piuttosto confuso che inaugura – proprio in questo ambiguo disordine – il piano del sistema patriarcale: «uccidere senza commettere alcun crimine». Lei invece «vuole essere il tutto che è in quanto essere vivente. Vuole vivere e non morire».
In altre parole, Antigone resta fedele alla propria genealogia materna, legata alla crescita e alla generazione; quella che «non attribuisce un’importanza assoluta alla famiglia in quanto tale, come fa il patriarcato». Polinice è in questo senso il fratello più giovane che non eredita il potere del padre ed è, soprattutto, il figlio di sua madre. Antigone dunque riesce a riconoscere l’importanza della differenza sessuata e difende – anche – quella di suo fratello. Distingue soprattutto le forme dell’amore. Tutto ciò non riguarda né le funzioni né i ruoli sessuati ma le identità in relazione alla loro stessa trascendenza. Secondo Irigaray il rispetto di tale trascendenza apre al riconoscimento dell’esistenza di due mondi differenti irriducibili l’uno all’altro. Sono due mondi in cui ciascuno per sé possa coltivare la propria autoaffezione, ma anche il proprio respiro – tema questo, insieme al soffio e all’energia, su cui Irigaray si è soffermata con pura dedizione negli ultimi anni. Sull’argomento e i suoi arcipelaghi, si pensi per esempio alle splendide pagine di Amo a te ma anche ai più recenti Il mistero di Maria e Una nuova cultura dell’energia. I due mondi così corrispondono a quelli della differenza sessuale capace di riconoscere la cruciale trascendenza di ciascuno e ciascuna. La scommessa è però che entrambi si mostrino capaci di aprirsi al terzo, inteso come luogo etico entro cui le relazioni riescano a compiersi e a dispiegarsi.

Biografie prismatiche
All’insegna della differenza femminile e della riconoscenza alla propria genealogia si apre un altro libro, importante, pubblicato recentemente da Nadia Fusini per Einaudi. Si intitola Hannah e le altre (pp. 160, euro 18,00) ed è scritto con una partecipata gratitudine verso l’esempio di un pensiero incarnato che si è saputo smarcare dalla violenza del patriarcato e fiorire in un altrove, pieno e dotato di senso seppur doloroso. Le protagoniste del volume sono tre scrittrici e filosofe che hanno fatto della propria vita un progetto di eccezionale potenza: Simone Weil, Rachel Bespaloff e Hannah Arendt. Di queste, Bespaloff è la meno nota: ebrea ucraina, vive tra Ginevra e Parigi fino a quando parte – insieme alla famiglia – per gli Stati Uniti. La sua è una vita assai travagliata e ricca di incontri con le maggiori personalità culturali del suo tempo. È interessante come la sua biografia e quella di Simone Weil abbiano delle comunanze notevoli, seppure le due non si siano mai conosciute.
L’incedere del testo è, per scelta di Fusini, confidenziale verso le singole esperienze di ciascuna; il volume si configura in questo modo come un lungo e innamorato esercizio che dispone a colloquio tre esistenze contigue per radicalità e grazia. Ma il simposio al quale si assiste è ben più vasto. Diversamente da quello socratico è certo che Fusini stabilisce di non lasciare che si discetti in nome e per conto di altre ed è così che la differenza sessuata si fa largo e fa arretrare la tracotanza del pensiero neutro. Weil, Bespaloff e Arendt decidono di utilizzare il metodo della scrittura per rimettersi al mondo e per acquisire una nuova vista che in noi, lettori e lettrici del libro, si trasfigura in ascolto paziente. Il teatro del Novecento diventa la scena in cui Fusini le fa entrare in relazione l’un l’altra consapevole come è che la trascendenza riscontrabile nell’alterità – la stessa di cui parla Irigaray – è la cifra per mutare il dramma e la fatica del vivere.

L’autoaffezione, in ognuna di loro, trova pieno compimento nella scelta di abitare il mondo e la storia con libertà e passione verso tutti i viventi. Proprio loro sì, straniere dappertutto. A costo di se stesse? Nel caso di Weil sì. Non si tratta di un sacrificio ma dell’attenzione generosa riguardo appunto un senso alt(r)o di giustizia per sé e per l’intera umanità. Un desiderio di interruzione di quel discorso unico del medesimo che determina una logica violenta. Eppure bisogna, anche qui, saper distinguere le forme dell’amore: Weil per esempio vive nella propria carne l’eventualità di tenere insieme il conflitto di forze contrarie tra loro e sceglie di traghettare la propria attenzione verso l’inizio.

Il «triangolo» novecentesco
Per farlo, così come Rachel Bespaloff, riconosce il rilievo della cultura greca. Entrambe vengono infatti folgorate dalla lettura dell’Iliade, spettro del presente – precisa Fusini – su cui entrambe scrivono importanti riflessioni. È da lì che si origina la discrasia tra forza e violenza ed è al poema omerico che si deve fare ritorno. Non c’è una patria o un porto sicuro, il fare ritorno è a questa altezza concedere alla propria fedeltà di farsi attraversare dalla storia. In questa passione smisurata per la scrittura, laddove quest’ultima rappresenta il corpo del desiderio, vi è un tentativo di fare ordine; è in questo senso che Simone Weil, Rachel Bespaloff e Hannah Arendt resistono allo sradicamento e alla disappropriazione del sé. Così, nello scenario novecentesco, le tre filosofe diventano crocevia di relazioni e incontri in presenza. Basti pensare alla curiosità di Simone de Beauvoir per Weil ma anche al senso degli ultimi condiviso con Marìa Zambrano. Assistiamo poi alle suggestive notazioni su Virginia Woolf che Fusini sceglie non a caso come una fulgida visione che tutto rischiara. C’è la sottrazione irrinunciabile di Emily Dickinson e, a proposito di risonanze e corrispondenze, appaiono Mary McCarthy, Irène Némirovsky e Katherine Mansfield. E, collocato in una posizione di speciale intermediazione, si presenta anche Jean Wahl.
Se è vero che Weil, Bespaloff e Arendt rappresentano per Fusini la chiave di volta per comprendere il dramma novecentesco, «nella triangolazione centrale è il ruolo della scrittura, che è per ognuna di loro una pratica razionale del verbo, o logos; e insieme, un’esperienza carnale, con tutto ciò che di mistico aleggia, in questo caso, intorno alla carne». L’esistenza femminile si è congedata dalla violenza del discorso unico, ha avuto la capacità di mostrare un altro modo possibile di vivere la condizione umana: quello della differenza come fonte inesauribile di libertà e rispetto per donne e uomini che ne sappiano riconoscere il segno relazionale, di intelligenza del cuore al centro della storia. Solo in questo senso, forse, si entra nel nocciolo delle questioni.