Regista «autosufficiente» e personalissimo, Paul Vecchiali partendo dalla grande tradizione del cinema francese d’anteguerra, ha esplorato e si è fatto contaminare, fin dai suoi esordi nei primi anni ’60, da melodramma,teatro,pornografia, noir, commedia musicale. Cinema da sempre laterale, mai appartenuto a nessun movimento della storia del cinema, ma non per questo marginale o disinteressato, con il fil rouge limpido e pulsante di una purezza stilistica di rara poesia, del ricordo costante delle lezione del cinema degli attori, del dialogo, di un volume di corpi che aspirano alla felicità. E di cuori vulnerabili che deambulano la notte alla ricerca di una realtà sommersa, come nel caso di Nuits blanches su la jetée.
In concorso al festival di Locarno, e ingiustamente dimenticato dai premi, il film di Vecchiali veste di moderna tragicità il romanzo breve di Fedor Dostoevskij e le quattro notti di illusione del giovane Fedor, uomo ordinario, incarnato dal corpo bressoniano di Pascal Cervo, alle prese con l’arrivo straordinario e fantasmatico della giovane Natasha e delle sue pene d’amore, dove il mare nero, che culla le peregrinazioni flâneur-acquatiche del protagonista, falsa le prospettive e fa emergere dalle acque echi lontani di Max Ophuls e Leo McCarey. Una sinfonia di luci portuali, di fari puntati sui volti e sul tormento, che ricordano la lezione magistrale di Jean Epstein e del suo Le tempestaire, di labili confini fra sogno e realtà che non può che terminare in un’alba, tragica, di ricordi e rimpianti, dove la notte afferma con ancora più forza il suo statuto di unico luogo «disponibile» alla vita.
Incontriamo Paul Vecchiali, di bianco vestito come le sue notti, e occhi azzurri così lontani dall’oscurità delle sue onde sul molo, poco dopo la presentazione, nella retrospettiva Titanus, di Cronaca familiare di Valerio Zurlini: «Per me il più grande film della storia del cinema italiano».

Era da tempo che pensava di adattare il racconto di Dostoevskij?

In realtà l’idea mi è venuta dopo aver rivisto Le notti bianche di Visconti e Quattro notti di un sognatore di Bresson, film magnifici che conoscevo molto bene. Non avevo letto mai il racconto, così ho comprato il libro, insieme a Le memorie del sottosuolo, e leggerli l’uno di seguito all’altro mi ha fatto pensare che sia Visconti che Bresson non avessero colto pienamente lo spirito masochista presente nell’opera dello scrittore. A mio avviso, il protagonista di Le notti bianchi crea Natasha nella sua mente, se ne innamora e si fa lasciare per godere in qualche modo della propria sofferenza. Ho deciso quindi di fare subito il film, e due settimane dopo ho girato con il mio iPhone le prime sequenze diurne, poi in novembre abbiamo girato in quattro notti, esattamente come nel libro di Dostoevskij.

Come ha lavorato con i due protagonisti, Astrid Adverbe e Pascal Cervo?

Ho chiesto loro di imparare a memoria il copione, ci sono stati solo dei piccoli cambiamenti in fase di realizzazione, mentre la scena del ballo è stata totalmente improvvisata da Astrid. Eravamo tutti stupefatti ma purtroppo abbiamo dovuto ripeterla perché le sue movenze non occupavano totalmente lo spazio: Nella sua danza ho inserito un omaggio a Maria Schell; come nel film di Visconti, Astrid fa finta di mettersi un cappello in testa.

In questo film,come in «Once More»,lei appare nelle prime scene, in una sorta di ouverture, mentre in altri suoi lavori ha recitato anche da protagonista, per esempio in «Faux accords».

Esattamente come in Once More, anche in questo film passo il testimone al mio protagonista, lo investo di una responsabilità filmica, è come se dicessi ai miei attori: «Ora questo film è tuo», e loro diventano una sorta di miei sostituti. Ho iniziato a recitare per caso nel mio primo film Le ruses du diable del ’65 perché l’attore non si presentò. La stessa cosa accadde per Corpo a cuore. Non pensavo di essere un bravo attore fino a quando non mi sono rivisto in Retour a Mayerling, ma ho sempre creduto che essere un attore con gli attori rompa la posizione di superiorità del regista e porti tutti allo stesso livello, tutti bambini che giocano con gioia.

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L’uso dell’iPhone e la prontezza del digitale hanno modificato la sua scrittura filmica?

Non è cambiato nulla. Penso che la scrittura filmica cambi continuamente da film a film, non ho mai una scrittura in generale, il mio precedente lungometraggio Faux accords non ha niente a che vedere con Nuits blanches sur la jetée. La semplicità tecnica del digitale non è la semplicità del cinema. Oggi possiamo fare delle cose molto complesse con un materiale immediato e fantastico. Molti giovani registi hanno nostalgia della pellicola e del 35millimetri ma quel tempo, a mio avviso, è finito. L’incipit del mio film, con il sole che tramonta sul molo, è girato con un semplice iPhone.

Questo riferimento ai giovani nostalgici mi fa pensare che da sempre lei non ha mai taciuto le sue posizioni molto critiche sul cinema contemporaneo, non solo francese…

Infatti anche il cinema americano oggi è insopportabile ma quello francese mi preoccupa di più anche perché non esiste: Forse c’è solo Laurent Achard, e poi Jean-Luc Godard, che però è svizzero, Marie-Claude Treilhou e Alain Guiraudie anche se purtroppo Lo sconosciuto del lago è un disastro, inammissibile per un grande regista come lui. Purtroppo il cinema oggi è condizionato dalla pubblicità e dalla televisione, schiacciato da vincoli produttivi e distributivi.

Ha già annunciato che il suo prossimo film si intitolerà C’est l’amour, titolo che ricorda il suo C’est la vie (1981). Può raccontarci qualcosa di questo nuovo progetto?

É la storia di due coppie, una eterosessuale e una omosessuale. Una storia d’amore, guerra, alcol e violenza visto che la protagonista femminile, di nuovo Astrid Adverbe, stupra sulla spiaggia Pascal Cervo, uno dei due uomini della coppia gay. Dopo lo stupro i due cambiano totalmente, diventano zombie e quest’amore resta virtuale salvo per una sola sequenza onirica. Si tratta di un maelstrom di sentimenti davvero crudele, sono letteralmente posseduto da questo film, sento che l’insieme di amore, guerra e alcol può essere una miscela davvero interessante. Cominceremo le riprese il prossimo maggio e nel frattempo girerò un cortometraggio dal titolo La bazarette, parola provenzale che indica una donna che parla senza sosta.

Senza sosta è anche la sua proverbiale attività di scrittura. Con  l’immediatezza digitale ha meno difficoltà a realizzare le sue sceneggiature?

Ho scritto circa 60 sceneggiature che non potrò mai realizzare. Problemi finanziari soprattutto ma anche film scritti appositamente per attrici che purtroppo oggi non ci sono più, come Danielle Darrieux e Annie Girardot. Con il digitale i problemi sono certamente diminuiti ma servono comunque i soldi e finché li avrò per i miei film, continuerò a scrivere sceneggiature anche perché sono sicuro che quando non potrò più fare film certamente ne morirò. E’ questo che mi tiene in vita, il cinema.