Ogni essere umano, cioè ogni animale dotato di parola, è in grado di fare questa e analoghe affermazioni dinanzi a un proprio simile. Le conseguenze, tragiche e certo non solo linguistiche, di tale possibilità sono sotto gli occhi di tutti. Il libro di Paolo Virno, Saggio sulla negazione. Per una antropologia linguistica (Bollati Boringhieri, pp. 203, euro 16,00 ), prende sul serio questa possibilità e la colloca al cuore della nostra natura. Questo deve fare, d’altra parte, un’antropologia che voglia davvero essere linguistica: non limitarsi ad affermare che siamo gli unici animali capaci di parlare ma domandarsi quali conseguenze abbia tale capacità per la nostra forma di vita. Per rispondere a questa domanda occorre andare a rovistare nella cassetta degli attrezzi linguistici e trovare gli utensili più adatti a far luce sull’intima natura del nostro linguaggio. L’utensile che Virno ci mette sotto gli occhi, per rivelarcene le straordinarie potenzialità, è una (apparentemente) semplice parolina: non. È questa parolina la protagonista del percorso, insieme suggestivo e rigoroso, che Virno ci invita a seguire in queste pagine.
A fare da orizzonte all’intero percorso è un’ipotesi dichiarata con nettezza sin dai primi passi: il linguaggio non si limita a potenziare capacità umane preesistenti ma retroagisce su di esse modificandole in modo radicale e irreversibile. È quello che accade per la socialità specificamente umana. Lungi dal potenziare la nostra socialità istintiva – garantita dal sistema dei neuroni mirror che condividiamo con altri primati – il linguaggio è, al contrario, in grado di disinnescare, fino al mancato riconoscimento tra co-specifici, questa forma prelinguistica di socialità; salvo poi consentirne una ricostruzione mai identica a quella primitiva e sempre a rischio di essere nuovamente perduta. Risultato di una lacerazione e di una sutura, la sfera pubblica è dunque una cicatrice e il linguaggio è insieme l’arma da taglio e il filo di sutura di questa cicatrice. Non il linguaggio nelle sue astratte potenzialità ma, più concretamente, la negazione, il non. A consentire il movimento appena descritto è infatti la nostra capacità di negare, una capacità che giustamente Virno considera specificamente linguistica e radicalmente diversa (seppure non del tutto irrelata) dalle altre forme, psicologiche e comportamentali, di rifiuto o repulsione. Di più: il non è ciò che rende possibile lo stesso parlare.

È uno strano utensile questo che Virno ci mette sotto gli occhi, un utensile bifronte. Oltre a svolgere i suoi compiti particolari, comparendo nei singoli enunciati negativi («Il mare non è in tempesta»; «non prometto di esserti fedele»; «ti ordino di non uscire»), il non ha anche un’intrinseca funzione riflessiva. È una parte in grado di riflettere le caratteristiche peculiari del tutto cui appartiene, esattamente come il denaro, a un tempo merce e unità di misura della merce. Denaro del linguaggio, il non è la parola capace non solo di dire come le cose non stanno ma anche di esibire l’intrinseca negatività su cui il linguaggio si fonda, l’originaria frattura tra l’enunciato e ciò di cui esso parla (la sua denotazione), l’incolmabile divaricazione tra l’enunciato e lo stimolo emotivo che lo precede o lo accompagna (la sua forza illocutoria). Un enunciato può, infatti, parlare di qualcosa, descrivere uno stato del mondo, solo in quanto è diverso da (non è) ciò di cui parla, e, analogamente, è in grado di fare qualcosa (promettere, giurare, ordinare) solo in quanto è diverso da (non è) lo stimolo emotivo (il desiderio, la speranza, l’aggressività) che sta dietro quella particolare azione linguistica.

Ma la negazione è uno strano utensile anche per un’altra ragione. Connettivo sintattico che si annida nella zona più astratta del pensiero verbale ha tuttavia il potere di retroagire su affetti e pulsioni, riplasmandoli in modo radicale. Non si tratta della semplice possibilità di dare parole alle emozioni. Riprendendo un celebre esempio di Wittgenstein, Virno mostra come il linguaggio inauguri un nuovo comportamento del dolore non perché amplifichi le nostre capacità espressive ma perché ci consente di dire anche «non ho dolore». Grazie al non possiamo parlare del dolore anche quando non ne siamo afflitti, adombrando nello stesso tempo la possibilità di provarlo. Diventiamo così in grado sia di dissimulare un’emozione, rifiutandoci di ammetterla, sia di simularla, fingendo di provarla. Fino al doppio giro del poeta fingitore di Pessoa che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente.

La retroazione del non nella sfera pulsionale consiste essenzialmente nella possibilità di una sospensione senza sostituzione. Caratteristica peculiare della negazione è infatti non presentare immediatamente un’alternativa a ciò che viene negato. Se dico «Giovanni non è coraggioso» non sto per questo dicendo che è un codardo. Ma c’è di più. Il contenuto negato resta in ogni caso obbligatoriamente presente. Non c’è altro modo di negare qualcosa che dirlo. È quello che succede al paziente di Freud che si affretta a negare che la donna del sogno sia sua madre o a chiunque inizi un discorso duro e aggressivo affermando «non è mia intenzione offendere».
È quello che è successo agli Ateniesi nel 403 a. C. dopo il crollo della tirannia, obbligati, per bloccare la catena di vendette, a giurare pubblicamente «non rievocherò le sventure». Il non, sostenuto qui dalla forza illocutoria del giuramento, funge da stimolo inibitorio di una pulsione distruttiva, di una pulsione a uccidere che non richiede certo parole per essere realizzata ma delle parole ha bisogno per essere trattenuta. La sospende ma non per questo la affievolisce o la annulla. Al contrario, la presenta come una possibilità sempre attuale e pronta a realizzarsi in ogni momento. Sarà sufficiente che intervenga un altro non a negare la negazione e a riattivare ciò che era stato soltanto sospeso, scatenando insurrezioni e lotte fratricide.

L’aggressività linguistica, resa possibile da questo strano utensile che è il non, si configura così come più pervasiva e ubiqua del suo analogo pre-linguistico. Forza che insieme trattiene e scatena, la negazione modifica in modo irreversibile la nostra vita cognitiva e pulsionale. La possibilità di dire «non ucciderò il nemico», «non demolirò la città» è solo il primo passo della capacità del non di retroagire sulle nostre pulsioni. Con la stessa facilità con cui inibisce le pulsioni distruttive il non è infatti in grado di sospendere anche i sentimenti di benevolenza ed empatia. Ogni ulteriore sospensione resterà sempre instabile e mai capace di ripristinare la situazione di partenza. Proprio quello che accade ad Achille nell’Iliade.
Persuaso da Atena a non uccidere Agamennone, l’eroe trattiene la spada e trova momentaneo sollievo nelle parole: copre di insulti il suo rivale e giura vendetta. Agamennone salva la pelle, è vero. Ma sappiamo bene quali lutti affliggeranno gli Achei.