Niente vale a impartire lezioni come una crisi, specie quando, come quella in atto, è crisi vera, non turbolenza drammatizzata dalla politica. Sono lezioni severissime stavolta, da cui sarebbe saggio imparare. Stenderne l’inventario porterebbe lontano. Contentiamoci di ragionare su quella che non è improprio definire l’emergenza democratica. I regimi democratici sono deboli da tempo, ma il Covid minaccia di metterli alle corde. Cosa insegna la crisi? Tra tante cose tre paiono più urgenti.

A guardare la questione dall’Italia, che non è caso unico e neanche il più grave, la prima lezione riguarda il regime rappresentativo come tale. Nelle scorse settimane il parlamento ha trovato inopinati difensori. Ma da decenni è l’agnello sacrificale da immolare sugli altari della “governabilità”.

Il rito è iniziato con l’ultradecennale campagna di delegittimazione condotta da un ampio schieramento di forze politiche, intellettuali e mass media ed è proseguito imprimendo al regime democratico un’abborracciata curvatura leaderista. È in questa logica – spoliticizzare l’azione di governo – che vanno intesi gli ormai famosi Dpcm, che hanno suscitato tanto scandalo. Provocati dai media, i costituzionalisti si sono divisi. Chi ha sollevato sospetti d’incostituzionalità, magari tra gli antichi sostenitori della governabilità a ogni costo.

Chi ha rassicurato (anche chi scrive). Chi infine si è detto preoccupato della possibilità che si sia costituito un precedente rischioso: è vero i Dpcm sono provvedimenti amministrativi ed è legittimo nutrire dubbi sull’usarli per restringere così massicciamente la libertà personale. Niente processi alle intenzioni, ma la lezione da trarre è che per l’avvenire serve attrezzarsi per le emergenze con strumenti più rispettosi del ruolo del parlamento.

I cui recenti paladini vanno messi alla prova: vogliono trattare il parlamento per come l’avevano pensato i costituenti, o l’affezione testé dimostrata è solo pelosa? Nel primo caso, occorre scrollarsi di dosso quarant’anni di antiparlamentarismo, palese e occulto. E ricordare che un paese di 60 milioni di abitanti non è un’azienda.

Chi governa svolge un’attività ben più complicata del Ceo di una multinazionale e qualche lungaggine ci sta. Dopo decenni in cui le lungaggini sono state accorciate di brutto, senza migliorare la condizione del paese, sarebbe meglio accettarle.

La seconda lezione riguarda il governo della crisi. Avrebbe richiesto una dimensione planetaria o almeno europea. Ci siamo contentati della dimensione nazionale. Rivelatasi assai carente. Per più motivi. In Italia il primo è lo stato in cui sono state ridotte le pubbliche amministrazioni e il comparto sanitario.

Rimediarvi, sempre che si voglia, non sarà facile. Il secondo motivo è l’operato di alcune regioni, che, guidate da forze politiche diverse da quelle al governo, nel contrasto al virus hanno voluto dar seguito alle ostilità condotte dai loro referenti nazionali. Enormi i danni e pure gli sperperi.

Sarebbe però uno sbaglio tornare e basta al centralismo. Anziché rinunciare ai contributi che possono giungere da autorità di governo più prossime al territorio, sarebbe però preferibile archiviare la distopia del regionalismo differenziato e tornare al modello “cooperativo” originario. Ovviamente cambiando il costume politico.

La terza lezione riguarda specificamente il costume politico. L’attuale contingenza ne ha messo in vista ulteriormente il degrado. I responsabili vanno cercati anzitutto tra i politici e i media, ma non solo. Mancava e ci si è messa Confindustria. La democrazia rappresentativa è una raffinata tecnologia di conduzione pacifica dell’azione di governo e di soluzione dei conflitti. È un regime pro tempore condotto da una parte, o da una coalizione di parti, a esclusione di altre.

Ma nessun regime democratico può funzionare se per troppo tempo le parti rifiutano di disciplinare i toni e di rispettarsi reciprocamente. Capitano cicli in cui il conflitto si acuisce. Ma un’esasperazione troppo prolungata può avere conseguenze distruttive. Esaurita la lotta di classe tradizionale, il punto è che non solo nuovi conflitti incombono sui regimi democratici, ma che questi ultimi sono corrosi da un inquietante processo di disincivilimento.

Non solo in Italia: nella contesa politica e nel dibattito pubblico l’inflazione delle violenze verbali è diventata intollerabile. Eppure, la minaccia del virus dovrebbe indurre a moderare i toni, a evitare invettive e aut aut. Per ricercare motivi di collaborazione, benché provvisoria. Le critiche sono il sale della democrazia, ma vi sono critiche e critiche: civili e incivili, argomentate e preconcette, costruttive e devastanti.

Ha pure i suoi diritti la critica della critica. Sia permesso ricordarlo a chi ha poco affettuosamente commentato un appello sottoscritto da 20 mila cittadini inteso a denunciare il linguaggio scomposto adoperato (e le non limpide manovre orchestrate) da alcuni ambienti politici e mediatici contro il governo Conte.

Questo governo è pieno di difetti e ha fatto molti errori. Malgrado la sua problematica composizione, ha però fronteggiato la crisi. Di sicuro il rimedio non consiste nel seminare veleni che potrebbero trovare terreno fertile nel malcontento suscitato dalle disuguaglianze, sociali e politiche, aggravate dal virus. Sono veleni che le società democratiche faticano ad assorbire. Quando avrebbero disperato bisogno di progetti di futuro in cui riconoscersi e sperare. Già, perché a ignorare queste e le tante altre lezioni impartite dal virus, il futuro sarà tristissimo.