Tradotto per l’oggi da Aldo Busi sette anni fa e rivisitato in chiave politicamente scorretta da Dario Fo due anni fa, il Decameron sembrava costretto ormai all’alternativa tra classico paludato per aule scolastiche ed elucubrazioni accademiche oppure libro giocoso per narcisismi d’autore, scherzi letterari e letture conturbate. Provano ora a restituirlo alla sua dimensione più autentica, mediando tra serietà storica e gusto ludico, Amedeo Quondam, Maurizio Fiorilla e Giancarlo Alfano, in un’edizione che s’impone all’attenzione critica per la novità del testo e del commento: Giovanni Boccaccio, Decameron (Bur «Classici», pp. 1851, e 18,00).

La prima novità è costituita dal testo, che Fiorilla ha modificato in vari punti rispetto alla vulgata dell’edizione Branca con correzioni meticolose e severe – anche se rispetto a questi interventi filologici resta sempre il dubbio che per un apprezzamento estetico ed esegetico potrebbe essere più utile attenersi al testo diffuso e letto per secoli anziché ricostruire un ipotetico e inverificabile testo originale. Fiorilla fa però dell’operazione filologica uno strumento interpretativo anche a livello grafico, riprendendo la consuetudine tipografica del manoscritto autografo (l’Hamilton 90 della Staatsbibliothek di Berlino, quello su cui è costruita l’edizione Branca), che apriva le giornate con una maiuscola più grande, il racconto introduttivo alle novelle con una leggermente più piccola e l’inizio vero e proprio della novella con una ancora più piccola, in modo da consentire al lettore di orientarsi nel sistema delle cornici del testo (da quella esterna in cui parla l’autore a quella del narratore che racconta la vicenda della brigata a quella in cui i vari narratori collocano le loro novelle). Si comprendono meglio così i diversi livelli di oralità, che implicano anche un orientamento ideologico del lettore verso i valori cui l’autore intende indirizzarlo: il manoscritto autografo, infatti, sottolinea Fiorilla, rivela un’idea di «libro» rivolto a un pubblico colto, al di là dei proclami autoriali a favore del divertimento narrativo per un destinatario esclusivamente femminile, perché Boccaccio intendeva dialogare con intellettuali esperti, capaci di cogliere i significati riposti e riconoscere la trama di fonti di cui il testo si sostanzia. Perché non pubblicare, allora, anche i curiosi e preziosi mini-disegni d’autore raffiguranti i novellatori e protagonisti delle novelle contenuti nel codice hamiltoniano?

Libro nient’affatto facile e divertente, quindi, a dispetto di una fruizione quasi sempre edonistica, spesso persino pornografica, complici le censure prima inquisitoriali e poi scolastiche, improntate allo stesso moralismo pruriginoso che ha di continuo accomunato cattolici ossessivi e laici compunti. Negli anni settanta, del resto, all’insegna di malintesi paradigmi naturalistici, il libro fu costretto a ispirare un genere cinematografico, il decamerotico, che conta una decina di titoli nel biennio 1971-1972, dal poco riuscito Decameron pasoliniano fino agli inguardabili Decameron proibitissimo – Boccaccio mio statte zitto… di Marino Girolami, Le calde notti del Decameron di Gian Paolo Callegari, o le Sollazzevoli storie di mogli gaudenti e mariti penitenti – Decameron nº 69 di Aristide Massaccesi, su un solco che giunge addirittura all’irritante sensualità adolescenziale di Virgin Territory dell’americano David Leland (da noi, purtroppo, Decameron Pie – Non si assaggia … si morde!). Non è certo questa la linea per valorizzare il capolavoro boccacciano, ma nell’introduzione Quondam giustamente insiste sulla «letteratura che avrebbe potuto esserci», se solo fra le tre corone Boccaccio non avesse avuto sempre il terzo posto, un passo indietro, rispetto a Dante e Petrarca, al punto che persino il riconoscimento come modello linguistico dell’italiano operato da Bembo nel Cinquecento non ha prodotto un «boccaccista» a fronte dei tanti «petrarchisti» che hanno affollato per almeno tre secoli lo scenario della letteratura italiana ed europea: una letteratura non moralistica, affrancata dall’utile, sollazzevole e vitalistica, capace di dar voce agli umori, le curiosità e i bisogni prima che alle richieste di sofisticazione stilistica ed eleganza linguistica. Quondam si spinge fino a definire Boccaccio «un simpatico pasticcione» e il Decameron «uno straordinario fiore che resta sterile perché è debole e fragile», come se il capolavoro boccacciano non fosse anche e soprattutto un capolavoro di letterarietà, il cui fascino sta proprio nella combinazione tra trasgressione ed eleganza, spinte verso il basso e richiami all’ordine.

Quello che a De Sanctis sembrava un «mondo superficiale», «vuoto di forze interne e spirituali», senza «serietà di mezzi e di scopo», a noi sembra oggi una straordinaria occasione di conoscenza e di critica: critica che non si eserciterebbe se non fosse presente una dimensione stilistica, che produce il comico attraverso l’ironia. Quando ser Ciappelletto, nella novella inaugurale, al prete che gli dice di non curarsi di aver sputato in chiesa replica con una paternale, perché «niuna cosa si convien tener netta come il santo tempio, nel quale si rende sacrificio a Dio», capovolgendo il rapporto tra confessato e confessore; oppure quando frate Cipolla, nella novella 10 della VI giornata, racconta il suo viaggio meraviglioso da Venezia «per lo borgo dei Greci e di quindi per lo reame del Garbo cavalcando e per Baldacca», attraverso Parione, Sardinia, Truffia, Buffia, la terra di Menzogna e gli Abruzzi, fino all’India Pastinaca, dove incontrò «il venerabile padre messer Nonmiblasmete Sevoipiace, degnissimo patriarca di Ierusalem», l’obiettivo non è solo quello di far divertire il lettore attraverso il rovesciamento dei valori convenzionali o il funambolismo verbale, ma anche quello di svelare il rapporto tra linguaggio e potere. Libro politico, allora, come mette in rilievo Alfano nelle sue schede al testo, perché Boccaccio è il più grande costruttore di comunità della storia della letteratura occidentale: sostituire a un vecchio mondo corrotto nei costumi e travolto dalla peste un nuovo mondo caratterizzato dalle forze vitali della natura, le donne in primis, senza che ciò significhi anarchia, ma generi un ordine diverso, è il vero grande obiettivo del Decameron, che qui viene finalmente riconosciuto in tutte le sue potenzialità. Fondatore, giusta Nancy e Agamben, di una «comunità-che-viene», inoperosamente: Quondam non esita infatti a individuare «la centralità della donna», domina del tempo del divertimento e della socialità, salvo rivendicare il «paradigmatico primato dell’uomo» – ambiguità che lo stesso Boccaccio risolveva nella sintesi tra emotività femminile e raziocinio maschile, con categorie che oggi potranno sembrarci superate, ma che a livello allegorico definiscono i principi di un buon governo basato tanto sulla natura quanto sulla cultura, tanto sul riconoscimento degli impulsi quanto sul giudizio che sa regolarli e controllarli.

È stata soprattutto la recente critica americana, con gli studi di Bergin, Scaglione, Marcus, Potter, Migiel, Mazzotta e altri, a mettere in rilievo le funzioni retoriche e politiche del testo: è proprio un peccato perciò che lo sguardo privilegi sempre e solo la tradizione interpretativa italiana, per troppo tempo ignara delle conquiste del close reading, dei gender studies e dei cultural studies, che hanno immesso il Decameron nella prospettiva di un valore diffuso nella società tanto del suo tempo quanto contemporanea, destituito di quell’aura sacrale di tipo estetico e letterario che spetta ai classici per sondarne le maglie di una tramatura ideologica complicata e attualissima. Eppure, proponendo una straordinaria conclusione intitolata a Le cose (e le parole ) del mondo, che rende conto del linguaggio con cui il libro si fa vera e propria, totale, visione del mondo, Weltanschauung, opera-mondo, Quondam recupera l’idea di «corpo», corpo fisico dei personaggi, corpo sociale della costruzione politica e corpo testuale dell’opera nel suo insieme: idea davvero fondamentale per entrare con uno sguardo impuro, cioè consapevole del nostro tempo anziché solo del suo, in un’opera che è fatta di 269.673 parole, riconducibili a 6550 lemmi, di cui il 30% circa costituisce un apax o unicum nel lessico boccacciano. Prova di varietas e realismo, certo, ma anche di una vocazione a includere piuttosto che selezionare o rastremare, che fa del capolavoro boccacciano un testo da percorrere e ripercorrere, esaminando nessi e corrispondenze interni, usi linguistici e significati allegorici in un inesausto andirivieni. A questo percorso, cavalcando con madonna Oretta alla ricerca di come si racconta una storia, how to tell a story, questo volume dà certamente un contributo decisivo.