Il tema del debito è entrato a far parte delle analisi dei movimenti per due principali motivi: il manifestarsi della crisi come effetto di un’insolvenza nel ripianare il debito legato ai cosiddetti mutui subprime; perché in ampie parti del mondo la condizione di indebitamento è sempre più paradigma comune, dagli USA sino ad arrivare ai cosiddetti ex Paesi del Terzo Mondo, dove i meccanismi di finanziarizzazione ed indebitamento agiscono attraverso le pratiche del microcredito. Tra i testi significativi usciti sull’argomento si possono menzionare Debitocrazia (di Millet e Toussaint), Debito: i primi 5000 anni (Graeber) e La fabbrica dell’Uomo indebitato (Lazzarato). Si può collocare in questo filone di dibattito un libro appena uscito negli Usa: Creditocracy – And the Case for Debt Refusal. L’autore è Andrew Ross, professore alla New York University e attivista impegnato in uno dei gruppi di lavoro formatisi durante Occupy Wall Street e tutt’ora attivo: Strike Debt. Cnsiderato dalla stampa e da studiosi conservatori come un «intellettuale pubblico» (l’equivalente statunitense di intellettuale militante), Ross ha scritto molti saggi, che spazione dalla cultura popolare alla «precaraizzazione» del lavoro intellettuale al ruolo della Cina dell’economia globale. Rispetto ai precedenti testi sul tema del debito, Ross focalizza l’analisi principalmente su quella che definisce come creditor class e su come essa, attraverso le istituzioni finanziarie, crea e mantiene le forme di indebitamento. Vengono proposte alcune figure, definite del «debito illegittimo»: il debito sovrano; il debito famigliare; quello studentesco; il «furto» del lavoro e del reddito; il debito climatico. L’ultimo capitolo del testo è invece dedicato alle forme di resistenza al debito. Abbiamo fatto alcune domande all’autore.

Alcuni anni fa due registi greci hanno promosso un documentario chiamato «Debtocracy», mentre il tuo libro si chiama «Creditocracy». La prima cosa che ho pensato è: sarà che uno proviene dall’Europa e l’altro dagli Usa?

Probabilmente non c’è una grossa differenza tra questi due concetti. È stato Mario Monti a parlare di creditocrazia (una cosa che non ci si aspetterebbe da un economista e leader politico che non ha mai nascosto la sua sua edisione all’ideologia del libero mercato), quando fu chiamato a protestare contro il potere delle banche tedesche, francesi e svizzere. Di solito quando c’è un «crazia» in un titolo ci si riferisce ad una élite dominante, da qui il riferimento alla classe dei creditori come termine che ho usato nel mio libro. La creditocrazia è quel tipo di società dove la classe dei creditori gode di un potere incontrollato, e dove le risorse primarie del loro reddito ed influenza sono l’accumulazione di ricchezze tramite rendite economiche e ingegnerie finanziarie. Sostanzialmente con strumenti di debito.

La creditocrazia emerge quando il costo del social good deve essere personalmente e individualmente indebitato/finanziarizzato, e l’obiettivo della classe creditrice è crearli/strapparli su ogni possibile asset. Ogni flusso di reddito nella società deve garantire un flusso stabile di debt service per la classe creditrice.

La nostra reazione istintiva al fardello dell’essere indebitati è il protestare affinché il nostro debito venga estinto. Ma così si manca il punto: vivere in una creditocrazia implica come presupposto che i nostri debiti non devono e non verranno saldati. I creditori dipendono dal tenerci indebitati per tutta la vita. Non vogliono che i debiti gli vengano interamente restituiti, perché se ciò avvenisse non ci sarebbe profitto per loro. Loro dipendono dal nostro fare ricorso a servizi di indebitamento.

Nel libro pare echeggiare un paragone fra l’indebitamento e la schiavitù. Se da un punto di vista politico la cosa funziona come appello, è però difficile immaginare concrete forme organizzative basate sull’indebitamento. Questa è indubbiamente una condizione comune, che tuttavia difficilmente fornisce forme di riconoscimento collettivo in grado di produrre mobilitazione. La domanda d’obbligo è: come ti immagini le possibili forme di organizzazione contro la «credit class».

Di mio non uso il termine schiavitù, anche perché in questo paese (gli Stati Uniti, n.d.r.) è un termine molto sensibile. Ma penso che l’enorme indebitamento si ponga in totale continuità con una storia che ha contenuto la schiavitù nel passato. E questo è il motivo per cui molte persone utilizzano parole come indenture, servitude e debt bondage. La grossa questione è se questa sia retorica o se invece siamo realmente ad un crocevia per le democrazie costituzionali, dove le catene del debito sono all’orizzonte. Sulle forme di lotta, quello che abbiamo scoperto negli ultimi anni, lavorando nel debtors movement, è che è una sfida molto differente rispetto all’organizzarsi sul salario. Anche qui non è certo facile a causa della precarietà delle condizioni di lavoro, dove le persone non hanno un singolo datore di lavoro. Allo stesso modo con il debito, non c’è un singolo creditore. Anche le persone che hanno lo stesso tipo di debito, possono non sapere chi sia il loro creditore. Non c’è un obiettivo visibile, una controparte. Quindi è molto difficile far comprendere alle persone il loro interesse comune. Ciò detto, questa è una sfida veramente necessaria. In Strike Debt abbiamo molto riflettuto su come promuovere alcuni circoscritti scioperi del debito che coinvolgano piccoli gruppi di persone più che uno sciopero di massa del debito. Partendo cioè da piccoli gruppi di persone con lo stesso tipo di debito e lo stesso creditore affinché abbia per loro senso organizzarsi per arrivare ad un default. Ci stiamo lavorando sopra, non è semplice. Da questo punto di vista, rinvio alle iniziative documentate nel sito internet: http://rollingjubilee.org/.

Il debito studentesco, contrattosi a causa delle tasse salatissime per accedere all’università negli Usa, è un tema che tu hai trattato sia come possibile forma di organizzazione, sia per il fatto che potrebbe essere una delle prossime bolle finanziarie ad esplodere negli Usa…

È un grosso problema per gli economic managers. Il loro lavoro è assicurare che la middle class abbia a disposizione un reddito per poter comprare case, allevare bambini, etc.. Questo è il loro lavoro: far andare avanti un’economia del consumo. A loro non interessa avere una cittadinanza educata e critica, cosa che infatti non c’è. Avere questo enorme debito anzi li avvantaggia, perché questo condiziona l’immaginazione politica degli studenti. Tuttavia devono trovare il modo di bilanciare l’annichilimento dell’immaginazione politica con un non eccessivo indebitamento come consumatori. Ma è un problema irrisolvibile. Bisogna inoltre considerare che, a differenza di altri paesi, oltre al debito studentesco qui è anche estremamente significativo il debito accumulato rispetto alla salute. Il Medical debt è la maggior fonte di bancarotta di uomini, donne e famiglie statunitensi, e non è una dinamica in via di mutazione nemmeno in seguito alla Health Care reform del presidente Barack Obama. Comunque nessuno sta proponendo soluzioni alla situazione del debito studentesco. Noi sappiamo quanto sarebbe davvero più economico rendere free l’high education in questo paese: secondo le mie stime costerebbe due miliardi di dollari l’anno, davvero pochi soldi. Ma l’ostacolo non è di natura economica, bensì politica.

Nel libro, illustri il fatto che più di un secolo fa «JP Morgan» andò in soccorso del bilancio degli Stati Uniti salvandoli dalla banca rotta. Negli ultimi anni è avvenuto esattamente il contrario. Questo mostra come il potere finanziario si sia appropriato della leva del potere politico. Tu ritieni che questo assetto, venuto manifestandosi con la crisi, si sia consolidato, che in qualche modo la crisi si sia conclusa, o invece ci troviamo entro uno scenario ancora tutto in movimento antiausterità?

A mio avviso c’è un’apparenza di stabilità del sistema sociale e economico, ma è una stabilità teatrale, creata dallo Stato. Le banche sono indubbiamente più grandi, più forti, più redditizie rispetto a prima. Quello che non ti uccide ti rende più forte, lo diceva Nietzsche no? E questo è certamente il caso. Non c’è stata da parte dei «funzionari eletti» nessuna capacità di opporsi a ciò, è universalmente riconosciuto che essi sono incapaci di farlo. C’è un grosso potenziale che si verifichi una nuova fusione sistemica, una grossa possibilità. E probabilmente le banche verranno trattate nello stesso modo. Non è che siamo esattamente nella stessa situazione rispetto al 2008, però penso che i mobili siano stati ridisposti nella stanza, ma non in maniera sostanziale. E alla fine si è consolidata e rafforzata la convinzione nella comunità finanziaria che loro verranno trattati bene, succeda quel che succeda. Un’aspettativa che adesso è frutto di esperienza. Non è possibile paragonare ciò che succede negli Stati Uniti con la zona Euro, perché gli Stati Uniti hanno una moneta a corso legale, una Banca Centrale che può battere moneta. E in più c’è il potere del dollaro a livello globale. Quindi non c’è una vera possibilità di fare paragoni, ma il principio del fare dei banchieri la guida. È il medesimo. Come la democrazia, o la failure democracy sia percepita, è un’altra storia. Noi abbiamo anche il problema di come è calibrata la democrazia in questo paese, che è piuttosto diverso rispetto all’Europa, ad esempio rispetto a come funzionano i poteri federali. Inoltre, negli Stati Uniti non abbiamo una sinistra nella democrazia rappresentativa. Ma anche per questo l’attivismo nella società civile è più forte. Le persone si organizzano di conseguenza.

Rispetto a ciò, una cosa che sto notando è che le forme di autorganizzazione, negli Stati Uniti, ruotano attorno all’idea di «community». Discutendo con alcuni attivisti emerge la centralità di alcune frasi e attitudini politiche: «faccio parte di una comunità», «faccio ciò che faccio per la mia comunità, per il mio quartiere». In Italia, o forse in Europa, è un’idea di comunità meno presente di quanto accade nellla realtà statunitense. È una differenza di lessico politico?

Voi europei siete più filosofici. Rispetto a questo, c’è probabilmente anche una questione di «sotto-scale» geografiche che si riverberano sulle forme demografiche, che probabilmente incide rispetto a questa questione in un paese come gli Usa. Così grande che c’è veramente poco in comune tra ciò che accade qui, a Midtown Manhattan per esempio, e ciò che accade in Alabama, in Missisipi, in Arizona… Siamo parte della stessa nazione, ma c’è davvero così poco in comune sotto la superficie. Conseguentemente le persone costruiscono un senso del loro far politica maggiormente legato al livello locale, e sentono che ottenere qualcosa per la loro comunità, sostenere la comunità,è ciò che veramente incide. Parlare di una politica nazionale è privo di senso pratico, anche visto che la sinistra solitamente ha così poche risorse. Infine noi non abbiamo la tradizione di un movimento nazionale.

* La versione integrale dell’intervista è pubblicata su www.commonware.org