La morte dell’uomo (Foucault) e l’oltreumanità (Nietzsche) costituiscono dei paradigmi concettuali che permettono di pensare con la necessaria radicalità teoretica le strutture antropologiche del presente e la loro possibile evoluzione verso un post del quale si vanno lentamente delineando proporzioni, contenuti, rischi e possibilità. Stiamo imparando da tempo che l’umano rappresenta soltanto una delle molte identità che abitano il mondo, con le sue proprie caratteristiche, limiti e potenza. Antropodecentrare la conoscenza significa comprendere la costitutiva apertura dell’essere umano all’alterità, senza la quale l’umanità diventa un enigma spiegabile soltanto con un qualche atto di fede.

L’altro è l’animale, l’altro è la macchina, l’altro è il sacro. Gli animali, l’artificio e gli dèi sono le dimensioni dalle quali emerge l’antroposfera. Il corpo umano condivide la quasi totalità dei propri geni con altre specie dell’ordine dei primati; vive da sempre in una complessa e assai ricca relazione con gli strumenti da lui stesso prodotti; affonda le radici della propria identità nei simboli sacri che pervadono tutte le culture. Rispetto alla pretesa isolazionista della nostra specie, abbiamo pertanto bisogno di «una nuova ermeneutica dell’alterità» (Roberto Marchesini) che sappia tener conto dei risultati ai quali pervengono le «scienze della nuova umiltà» (Eugenio Mazzarella), tra le quali è centrale l’etologia.

Artefatti. Dal postumano all’umanologia (a cura di Maria Teresa Catena, Mimesis, pp. 314) si confronta in modo attivo e critico con questa costellazione di problemi, offrendo delle prospettive a volte marcatamente polemiche – sino all’esplicito rifiuto del paradigma postumanista -, altre invece più equilibrate e aperte a un dialogo che dell’oltreumano sappia cogliere le distinzioni interne – come quelle, assai nette, tra iperumanismo antropocentrico e postumanismo antropodecentrico – senza rinunciare a individuare dei limiti là dove ci sono. Che l’umano sia sin dalle sue origini un «connubio tra corpo e tecnica, tra organico e inorganico» (M.T. Catena) è talmente evidente da indurre ad affermare che «l’uomo è sin dall’inizio post-umano» (N. Russo).

Instabilità dei viventi

È appunto nel saggio di Russo che emerge con grande chiarezza la continuità che la cultura greca sempre riconobbe tra ciò che chiamiamo umano e tutto il resto del vivente. Aristotele riassume tale legame descrivendo ciò che noi chiamiamo «anima» come nient’altro che «l’animazione dell’animato, ossia la forma dinamica della sua esistenza corporea in quanto vivente, la psyche che fa di ogni zoon quello che è, dalla pianta a Dio. Anima che Aristotele definiva «forma del corpo naturale che ha la vita in potenza», in ultima analisi vita in atto ogni volta nella sua propria forma» (Russo).

Per i Greci – compreso Platone – l’umano è zoon come ogni altra cosa viva. Come tutti è corpo vivente. È pertanto necessario coniugare anche a livello epistemologico ciò che è ontologicamente unitario: il corpomente umano in relazione con ogni altro elemento della materia, della natura, del mondo.

[do action=”citazione”]Una delle illusioni generate dalla cultura digitale era l’abbandono della corporeità a favore di una mente pensata come separata dal corpo[/do]

Il problema del paradigma postumano non sta nel riconoscimento della reale continuità tra i viventi, nel riconoscimento quindi anche del legame tra l’umano e ciò che questo vivente produce, vale a dire le macchine. Il problema piuttosto è non fare del postumano un altro strumento «di una scienza sempre più asservita alla produzione industriale, in occidente oggi alla disperata ricerca di nuovi ordini di prodotti, di nuovi «generi» tramite il cui consumo e consunzione ridare foga a una crescita estenuata: innanzitutto le biotecnologie e le incipienti forme di antropotecnica» (Russo). D’altra parte, anche la tradizione umanistica – convinta che tutti e ciascuno debbano corrispondere a un modello immutabile fuori dal quale non si dà umanità – ha prodotto esiti come quelli che Cristian Fuschetto definisce «gli umanisti con la svastica (i quali) sono degli innovatori, adattano la tradizionale aspirazione a perfezionare l’anthropos ai moderni saperi della vita e agli strumenti, altrettanto moderni, della biopolitica».

Allontanarsi da queste cadute implica che si riconosca nell’umano una complessità irriducibile sia all’identità assoluta con il resto dell’essente sia alla differenza altrettanto assoluta e portatrice di dominio dentro la comune casa che tutti i viventi ospita. Il paradigma postumano va coniugato con la fondamentale asimmetria dalla quale scaturisce «un’umanità plurale, più consapevole di dover ancora e continuamente guadagnare se stessa» (M.T. Catena). Ed è proprio questo guadagno il frutto più maturo delle prospettive oltreumanistiche, consapevoli che non c’è una «meta definita» nel cammino di questo «essere instabile e manchevole» che «trascende continuamente se stesso» (F. Gambardella). E quindi «se qualcosa siamo, siamo un passaggio in via di passarsi» (Catena), siamo cioè tempo incarnato, sia come individui sia come specie; tempo consapevole di se stesso, nel quale il corpo individuale e collettivo si protende verso il futuro sulla base della memoria personale, biologica e storica. Si comprende così che una delle illusioni generate dalla cultura digitale è l’abbandono della corporeità a favore di una mente pensata ancora una volta come separata dal corpo, pensata come pura potenza formale e sintattica da trasportare su supporti più resistenti e più duraturi rispetto alla materia biologica di cui siamo fatti.

Il post dell’umano non sarà costituito da robot o da androidi diventati padroni del mondo ma da quella fusione di biologico e protesico che l’umanità è da sempre. Naief Yehya (Homo Cyborg, Eléuthera 2004) afferma che non bisogna confondere entità diverse come – appunto – i robot, gli androidi e i cyborg. I robot esistono da decenni e lavorano instancabilmente in contesti differenti. Gli androidi, rappresentano il futuribile di macchine antropomorfiche perfettamente coscienti di esistere. Il cyborg, invece, costituisce il presente poiché è l’accostamento e la fusione operativa di un organismo biologico con una macchina: dall’automobilista con le mani sul volante e i piedi sui freni al malato di cuore dotato di pacemaker, dal ciclista a chi fa uso di lenti a contatto. È ovviamente un cyborg chi è connesso in ogni istante a una Rete.

La potenza del paradigma

Coniato nel 1960 da Clynes e Kline per indicare un uomo migliorato e potenziato al punto da riuscire a sopravvivere in un ambiente non terrestre, il termine cyborg è quindi diventato un potente strumento di comprensione di ciò che caratterizza l’umano da sempre ma che oggi mette in discussione i paradigmi più consolidati, le differenze di sesso, classe, etnia e persino specie, mediante un’accelerazione di quel processo ibridativo che costituisce un dato antropologico costitutivo dell’Homo sapiens.

Ciò che Artefatti vuole sin dal titolo indicare e proporre è dunque «non umanesimo, né post-umano e tantomeno trans-umano, piuttosto è un’umanologia ciò di cui qui si tratta» (M.T. Catena). Un’umanologia radicata nella nostra identità temporale, tecnica e costitutivamente plurale. L’oltre dell’umano sarà, perché l’umano è da sempre questo andare. Ma non sarà nelle forme di un’ossimorica vita senza corpo né in quelle di un dominio degli apparati tecnologici sulla calda vita in divenire dei corpi. Lo sarà, piuttosto, nella inclusione delle differenze, a partire da quella che l’umano stesso è rispetto alle morte cose. Tutto questo conferma la centralità del dispositivo concettuale chiamato «postumano» all’interno di una filosofia che voglia pensare il presente e i movimenti di delocalizzazione identitaria che lo attraversano.