Nel 2013 non sono certo mancate le occasioni di ascoltare composizioni di Benjamin Britten. Nel centenario della sua nascita praticamente tutte le stagioni concertistiche e operistiche si sono premurate di inserire in cartellone lavori del compositore britannico. Di conseguenza di lui si è già scritto molto su testate specialistiche o meno. Ci sembra però un caso forse unico, o comunque insolito e da rilevare, che una cantante di valore come Cristina Zavalloni sia stata chiamata ad interpretare tre ruoli diversi in altrettante opere di Britten. Il mezzo soprano, oggi sulla cresta dell’onda, ha costruito la sua carriera con una convinzione ben precisa: che le trasfusioni fra le diverse culture, da un genere musicale a un altro, dal livello popolare a quello colto, dal circuito commerciale a quello specialistico, non solo sono sempre esistite, ma sono vitali e benefiche.

Le opere britteniane interpretate dalla Zavalloni nel 2013 sono “The Rape of Lucretia”(1946), produzione del Maggio Musicale Fiorentino, “The Turn of the Screw” (1954), in novembre all’interno della stagione lirica del Teatro Comunale di Bologna, e la cantata “Phaedra”, ultimo lavoro vocale di Britten risalente al 1975, in programma in dicembre a Parma e Piacenza con l’Orchestra Arturo Toscanini.
Tre opere quindi che si collocano in diversi periodi dell’attività compositiva di Britten: opere diverse per struttura, soggetti, obiettivi. Abbiamo chiesto alla cantante una sua personale sintesi sui contenuti peculiari di ognuna di esse e su eventuali elementi in comune. «”Il ratto di Lucrezia” è la storia di una nobildonna romana del V secolo a.C., celebre per la propria virtù, che viene stuprata dal principe etrusco Tarquinio, e che per la vergogna, nonostante suo marito Collatino la perdoni, si toglie la vita. “Phaedra” si basa sulla figura della mitologia greca: moglie di Teseo, è vittima di una travolgente passione per il figliastro Ippolito; sconvolta dal proprio desiderio, anche Phaedra decide di uccidersi.
Più complessa invece la trama de “Il giro di vite”, tratto dal racconto di Henry James. Una delle letture più accreditate di quest’opera enigmatica è che la presenza dei fantasmi nel castello sia frutto della psiche suscettibile della giovane governante, una proiezione scaturita dalla repressione di un forte trasporto emotivo (sessuale?) verso il nobiluomo suo padrone.

Quanto alle analogie tra le tre opere, la più evidente mi pare che sia la presenza della Morte: tutti e tre i titoli ne sono pervasi. E i temi trattati sono quelli cari a Britten: il senso di colpa, le costrizioni imposte dalla società, la purezza corrotta…».
A proposito delle peculiarità dei personaggi interpretati, così argomenta la Zavalloni: «Il Coro Femminile nel “Ratto di Lucrezia” e Miss Jessel nel “Giro di vite” sono personaggi in qualche modo simili, entrambi impegnativi sia per la tessitura vocale, in bilico tra soprano e mezzosoprano, sia per la loro ambiguità. Ad esempio, il Coro Femminile, come già nella tragedia greca, non prende parte all’azione: piuttosto la commenta, la contrappunta, la narra, spesso affiancata dal suo alter ego, il Coro Maschile. Però poi ad un tratto, contraddicendo la propria natura di osservatore, ecco che si mette a sputare sentenze, a esprimere giudizi. Così facendo mette in crisi l’interprete: deve restare neutrale, come sembra intimare il mandato di Coro, o grondare pathos come suggeriscono invece le linee melodiche affidatele?

Stessa considerazione per Miss Jessel, che essendo un fantasma si immaginerebbe relegata a fugaci apparizioni e suoni rochi da fuori scena. Così è per buona parte degli interventi cantati che la coinvolgono, ma poi ecco che nella scena che apre il secondo atto la si vede alle prese col proprio alter ego maschile, il fantasma Quint, a gridare a squarciagola una citazione tratta dal poema “The Second Coming” dell’irlandese Yeats.
In altre parole, nella distribuzione dei ruoli di queste due opere compaiono due figure ambigue, uomo e donna, che partecipano solo marginalmente alla vicenda e alle quali Britten sembra affidare la propria riflessione sulla perdizione della società bigotta in cui viveva, sul bisogno di rivendicare la propria condizione di omosessuale, sull’ingerenza della chiesa nella vita dell’uomo, sulla necessità di entrare in comunione diretta con dio, attraverso un cristianesimo intimo e profondamente sentito».

Di conseguenza quali gli approcci interpretativi adottati per rendere ruoli così pieni di sfaccettature? «Insieme a Jonathan Webb, direttore musicale di entrambe le produzioni, ci siamo a lungo interrogati; – afferma la cantante – alla fine credo che la risposta stia sempre nello spartito: è tutto lì. Mi pare che il compito più alto di un interprete sia lasciar parlare la musica. Specie quando si ha a che fare con un compositore che era ben conscio di ciò che faceva, che attribuiva ad ogni pausa, fraseggio o legatura, un significato preciso, al servizio del testo inglese magnificamente reso. Io adoro mettere in scena personaggi così, complessi e tragici, perché danno modo di accedere a un ampio spettro di colori vocali e prevedono uno scavo emotivo che trovo catartico».

Riguardo a “Phaedra” la cantante precisa: «Lì sono sola in scena. Si tratta di una cantata per mezzosoprano e piccola orchestra in cui Phaedra è protagonista assoluta del dramma che vive. Inizia con un prologo, in cui spiega brevemente la vicenda, e prosegue con tre monologhi rivolti ad altrettanti interlocutori: Ippolito, il figliastro di cui si è perdutamente innamorata, Enone, la ninfa alla quale rivela il proposito di uccidersi, e infine Teseo, il marito che ormai, per la vergogna, non ha più il coraggio di guardare negli occhi.

Per circa quindici minuti il pubblico assiste al flusso di coscienza di questa donna, in preda al tipico prodotto della cultura cattolica: il senso di colpa. Phaedra ha ormai maturato la propria decisione: beve il veleno e solo quando è certa che stia facendo effetto, riconciliata, si concede un’ultima ascesi verso la purezza, chiudendo appunto con la parola purity».
Infine, quali le differenze nelle messe in scena? Quali le impronte date dal direttore d’orchestra e dal regista? «Come dicevo, sia nella Lucrezia che nel “Giro di vite” la direzione musicale è affidata a Jonathan Webb, musicista inglese specializzato in questo repertorio. Quando l’ho incontrato a Firenze, per la prima volta, è stato facile capire cosa gli stesse a cuore: la pronuncia, innanzitutto, rigorosamente british, come è giusto che sia; poi il rispetto sacrale dello spartito, la precisione ritmica e l’intonazione. E su tutto la voce, che lui vorrebbe duttile e ricca di colori: corposa e timbrata nei passaggi più lirici, leggera in quelli più sincopati, quasi parlata in molti punti teatralmente cruciali.
“Phaedra” invece l’ho cantata in dicembre a Parma e Piacenza insieme all’Orchestra Toscanini, diretta dal francese Jean-Luc Tingaud, che ancora non avevo avuto il piacere di conoscere. Per quanto riguarda le messe in scena, “Phaedra” è in forma di concerto mentre le altre due opere, anche se affidate a registi molto diversi tra loro come Daniele Abbado e Giorgio Marini, direi che sono rese entrambe in modo molto elegante e misurato. Sono allestimenti rigorosi, nei quali è sempre presente però un elemento di disturbo, di visionarietà».

Con la fine del 2013 Britten sta per essere archiviato e Cristina Zavalloni è già proiettata verso gli impegni del 2014: oltre a un’intensa attività jazzistica (l’uscita di due nuovi dischi e concerti con tre diversi gruppi) sono in cantiere importanti appuntamenti di musica contemporanea in Italia e all’estero, fra i quali i tour in occasione dei settantacinque anni del compositore olandese Louis Andriessen.