In piena notte, la Knesset è stata sciolta e sono state decise nuove elezioni, dopo le settimane che hanno decretato il crollo del grande mago, il genio delle campagne elettorali, il re Bibi Netanyahu.

Mentre mi apprestavo a scrivere una sapiente analisi, mi sono ricordato di qualcosa che tutti dimenticano e nessuno ne ha parlato alle ultime elezioni – e cercheranno di fare lo stesso alle prossime: Israele è «l’unica democrazia del Medio Oriente»… Certo ma con alcune precisazioni necessarie. Le truppe israeliane e le bande di coloni si impongono con la forza su quasi cinque milioni di palestinesi i quali, nei territori occupati e in quel carcere a cielo aperto che è Gaza, continuano a essere privati dei più elementari diritti umani e politici. Poco prima delle ultime elezioni, è passata una legge discriminatoria nei confronti dei palestinesi; una forma elegante di apartheid.

Stavolta era chiaro fin dall’inizio: quello che importava di più a Benjamin Netanyahu non erano la sacralità dei territori o gli «interessi nazionali». Il suo principale obiettivo era ed è sfuggire ai processi penali che lo porterebbero dritto in carcere. Le fondatissime accuse del procuratore generale per faccende pesanti di corruzione ossessionano il premier, disposto a qualunque mossa, a mettere in piedi qualunque coalizione pur di evitare questo scenario. «Casualmente», anche il ministro degli interni Arie Deri, sefardita ultraortodosso, il deputato del Likud David Bitan e il ministro della salute Yaakov Litzman – a sua volta un ultrareligioso ashkenazita – si ritrovano con accuse che li porterebbero in tribunale; intanto sono stati interrogati dalla polizia.

I cambiamenti che tutti volevano introdurre nel sistema legale israeliano erano – sono – semplicemente disastrosi. Prima delle elezioni, Netanyahu ha aiutato la ricostruzione di un gruppo di estrema destra i cui elementi centrali erano cascami razzisti e fascisti, legati in passato al rabbino Kahane e ai suoi accoliti. Ma un partito di fondamentale importanza per Netanyahu, tanto che gli sono stati promessi i ministeri dell’educazione e della giustizia. Nelle ultime 48 ore tutta la suspense provocata dalle discussioni in merito alla formazione della coalizione si è concentrata intorno all’ex ministro Avigdor Lieberman e alle sue richieste circa l’estensione della leva militare agli ebrei ultraortodossi.

Sia Lieberman che i partiti ultrareligiosi si sono irrigiditi sulle rispettive posizioni. Negli ultimi giorni Lieberman è diventato molto popolare nei circoli laici per la sua opposizione a quello che ha chiamato uno «Stato clericale». I religiosi, oltre a esigere che i numerosi studenti delle istituzioni religiose, «servendo Dio», siano esentati dal servizio militare, mentre avanzano diverse altre richieste, corrompono tutti quelli che si lasciano corrompere e e chiedono l’introduzione di divieti e norme tipici di uno Stato confessionale. 24 ore prima della dissoluzione del Parlamento e della convocazione di nuove elezioni, ecco il circo. Il «leader» dei laburisti, che aveva guidato il partito a una sonora sconfitta (da 24 seggi a 6, alla Knesset) ha ricevuto rappresentanti del grande Bibi che hanno offerto il ministero delle finanze e altri ministeri per tutti i deputati. Il ministro delle finanze Kahlon, che aveva giurato fedeltà al sistema democratico e all’indipendenza del suo partito Kulanu, ha accettato di essere inserito nelle liste del Likud. Insomma, tutti hanno ricevuto succulente promesse di ministeri e poltrone, perché la libertà del grande Bibi non ha prezzo.

Allora che cosa ha portato Lieberman al passo estremo? La maggioranza dei commentatori sostiene, a ragione, che la legge sulla leva è solo una scusa. Si avanza l’ipotesi dell’odio viscerale fra i due ex compari. Altri parlano di ragioni segrete. Quando, nel 2015, Netanyahu fece anticipare le elezioni, il suo principale – e segreto – obiettivo era impedire l’approvazione di una legge che avrebbe danneggiato il giornale Israel Today del suo sostenitore statunitense Sheldon Adelson. Distribuito gratuitamente a pioggia, fa propaganda spinta per Netanyahu.

Dunque, quale è stata la causa del passo di Lieberman rispetto a Bibi? Questo processo elettorale si è distinto per l’assenza di un reale dibattito sui temi fondamentali, la pace e la guerra, la legge dell’apartheid, il sistema economico neoliberista che arricchisce ulteriormente i più ricchi mentre distrugge quel che è rimasto dello Stato sociale. Il partito Blu e Bianco ha detto con forza «via Bibi» ottenendo su questo molti consensi. I sostenitori di Netanyahu hanno gridato «quelli sono di sinistra» – un’accusa terribile, in Israele, accusandoli di future coalizioni con i partiti arabi, e quelli hanno risposto «non lo faremo». La sinistra reale non si è manifestata alle elezioni, e possiamo dire che il laburismo, di fatto, non è «sinistra». I due partiti a maggioranza araba (10 deputati, erano 13 nella lista unificata e nelle ultime ore già si parla di riunificazione) e Meretz (4 deputati) sono gli unici fuori dal coro ultranazionalista dominante.

Insomma, quale divergenza fra Lieberman e Netanyahu ha determinato l’avvio di un nuovo processo elettorale? Lieberman come candidato a ministro della difesa avrebbe continuato a esigere il pugno di ferro contro i palestinesi a Gaza.

Netanyahu, grande moderato, si oppone. Non certo per pacifismo, ma perché avere la mano «meno pesante» a Gaza significa tenere in piedi il governo di Hamas nella Striscia. Assicurandosi così il perpetuarsi delle divisioni all’interno dei palestinesi. La mano «liberal» a Gaza è lo strumento per assicurare l’annessione a Israele di gran parte della Cisgiordania, e intanto il piano di Trump è il ricorso a un piano economico in grado di ingannare tutti: un qualche miglioramento della situazione materiale dei palestinesi che avrà un «piccolo» prezzo politico. Nientemeno che la rinuncia alle aspirazioni nazionali e alla fine effettiva dell’occupazione.