Jean Deichel ha un sogno, ma sarebbe meglio dire che è tormentato da un’ossessione: trovare un produttore e un regista che si lascino convincere a trasformare in un film le settecento e passa pagine della sceneggiatura intitolata The Great Melville che ha dedicato all’autore di Moby Dick e alla sfortuna che gli toccò in sorte: incompreso e dimenticato come scrittore e trascorse gli ultimi diciannove anni della sua vita in un ufficio della dogana di New York, in totale solitudine. In questa estenuante ricerca, anche Deichel è sempre più solo e preda di uno sconforto alcolico, finché non gli verrà suggerito di rivolgersi a Michael Cimino, il regista de Il cacciatore , scomparso nel 2016 che, proprio come Melville, dopo un debutto trionfante ha visto calare il silenzio e l’ombra sulla propria opera.
Vincitore del prestigioso Prix Medicis lo scorso anno e acclamato dalla critica francese al momento della sua uscita, Tieni ferma la tua corona (Neri Pozza, pp. 268, euro 18, traduzione di Giovanni Bogliolo) di Yannick Haenel interroga la forma romanzo, il cinema e l’arte più in generale come ricerca dell’assoluto che «la destina a essere essa stessa un mondo, e dunque a modificare la storia del mondo». Per questa via, il libro, ambientato in gran parte a Parigi, all’indomani degli attentati jihadisti che colpirono la città nel novembre del 2015, indaga, talvolta con sfrontata ironia e una costruzione bizzarra e sognante, anche il significato della responsabilità individuale di fronte alla barbarie che cresce intorno a noi. Per Haenel, grande conoscitore del cinema e della letteratura americani, tra i fondatori della rivista letteraria Ligne de risque e autore di una mezza dozzina di romanzi, tra i quali Il testimone inascoltato (Guanda), dedicato alla figura di Jan Karski, il militare polacco che nel 1943 incontrò i leader britannici e il presidente Roosevelt per convincerli, invano, ad intervenire per fermare i campi di sterminio nazisti, un modo per fare i conti con le proprie passioni, ma anche con un presente minaccioso e oppressivo.

 

Gregoy Peck in Moby Dick di John Huston del 1956

 

Il protagonista di «Tieni ferma la tua corona» vive tra visioni, fantasmi, ossessioni che muovono dalla lettura di Melville per arrivare fino alle storie di Cimino. Dove finisce il film e dove inizia il romanzo?
Freud parlava di «ombelico del sogno». Penso che la narrazione, si tratti di letteratura piuttosto che di cinema, cerchi proprio di individuare questo centro non solo metaforico dei sogni, questa «origine» delle immagini. Al centro del libro c’è perciò proprio l’idea che la frontiera tra film e romanzo, ma in qualche modo anche tra tutto ciò e il reale, sia estremamente sottile. Non a caso, nella prima pagina il protagonista afferma: «A quel tempo, ero pazzo». Ma la pazzia di cui parla non ha niente di patologico, al contrario è una forma di ricerca che si è impossessata di lui e lo ha reso un visionario, un poeta che vede delle immagini dappertutto e trova ad esempio delle tracce di regalità in chi incontra.

Tra i diversi piani narrativi che il libro propone, uno riguarda quella sorta di ricerca interiore, il «fuoco mistico» che sembra muovere il protagonista e che, ancora una volta, lo porta a misurarsi con il cinema, prima di Cimino e quindi con «Apocalypse Now» di Coppola.
La prima volta che ho visto quel film credo di aver avuto intorno ai dieci anni e mi è parsa una sorta di rivelazione. Sullo sfondo della guerra del Vietnam Coppola propone infatti un racconto che si potrebbe definire «esoterico»: il capitano Willard parte alla ricerca di un dio folle, il colonnello Kurtz, per ucciderlo e diventare così a sua volta un dio. Nel mio romanzo questa ricerca di assoluto, questo afflato mistico assume la forma della situazione di Parigi di un paio d’anni fa: vale a dire una città sotto schock per gli attentati perpetrati dai fondamentalisti islamici e che proprio a causa di questi crimini si trova confrontata con una situazione nella quale ciascuno è obbligato a ripensare in qualche modo la propria esistenza. E il protagonista che è un personaggio un po’ anarchico, ribelle comprende che la sua vita è segretamente attraversata da un’urgenza, un bisogno di conoscenza che è poi l’antica ricerca filosofica della verità. Solo che lui la cercherà nelle strade, nei cinema, nel vino piuttosto che nei trattati di filosofia.

Da questo punto di vista, la «corona» che compare nel titolo del libro vuole evocare la ricerca della verità e, forse, spingendosi ancora più in là, della libertà?
Quella frase l’ho scovata nei Cahiers di Proust e ho scoperto che lui l’aveva a sua volta ripresa dall’Apocalisse di Giovanni. Mi è sembrata significativa e dotata di un forte simbolismo: ai miei occhi quella «corona» fa riferimento ad una regalità e a un reame senza potere, dove nessuno regna davvero su qualcun’altro. Perciò si tratta di una nobiltà che si trova in ciascuno di noi: ognuno può essere il «re» della propria esistenza. La storia che racconto in questo romanzo è per molti versi quella di un individuo che ha dimenticato di essere anch’egli, come tutti noi, un re e che vive ai margini, senza quasi curarsi più di ciò che gli accade. Ma la ricerca in cui è impegnato lo condurrà proprio a riconquistare questo suo reame interiore. E a guardare in un altro modo anche a ciò che lo circonda: nel senso che, anche se può apparire a prima vista come un paradosso, «la politica» è in fondo la cosa più intima che si possa immaginare, visto che riguarda cosa si vuol fare della propria vita, a cosa la si consacra.

 

La locandina di “I cancelli del cielo” di Michael Cimino

 

C’è un film dal tema attualissimo che ossessiona il protagonista: «I cancelli del paradiso» di Cimino che racconta di un massacro di immigrati dell’Europa orientale compiuto dai capi degli allevatori del Wyoming alla fine dell’Ottocento.
Non si tratta di una scelta casuale, Jean Deiche è un testimone del clima politico che cresce intorno a lui, della violenza che si impone. Come accade nel film di Cimino che racconta di come l’America dopo aver sterminato le popolazioni autoctone ha cercato di uccidere secondo un progetto ben preciso una parte degli immigrati che affluivano nel paese – come del resto cerca di fare ancora oggi -, lui assiste nelle strade di Parigi alle retate della polizia contro i migranti «irregolari». Ne salva quasi per caso due, arrivati dalla Libia, facendoli salire sulla sua macchina. Personalmente lui dubita del fatto che gli individui possano ancora considerarsi, sotto qualunque aspetto come «una comunità». Ma è allo stesso tempo sicuro che ciascuno ne può creare ogni istante una nuova, piccola e parziale a partire dalle proprie azioni, dai gesti che compie.

C’è un filo che lega questo romanzo al libro che ha dedicato a Jan Karsky?
Quel libro raccontava soprattutto della solitudine di un messaggero che i fatti hanno trasformato in testimone e che si è dovuto misurare con il crimine più grande che sia mai stato compiuto. Jan ha sentito dentro di sé che poteva salvare degli esseri umani, nel caso specifico degli ebrei, e ha cercato di fare tutto quello che era in suo potere per farlo, finendo per diventare così del tutto casualmente una sorta di «santo laico». Ciò che lega quel libro a Tieni ferma la tua corona ha a che fare con la riflessione che conduco da tempo intorno al tema dell’origine criminale delle società. Ancora una volta ricorro a Freud per sottolineare questo concetto: c’è una frase in Totem e tabù che spiega come «ogni società è fondata su di un crimine commesso in comune». I cancelli del cielo di Cimino illustra bene la natura del crimine originale su cui è ad esempio fondata la democrazia americana. E, sulla stessa linea, la storia di Jean Deichel intende mostrare come oggi le vite degli immigrati sono in qualche modo sacrificate perché le società occidentali possano continuare ad esistere senza interrogarsi troppo su loro stesse e sul loro futuro. Perché nessuno si ponga scomode domande.