Una delle opere più significative di Massimo Campigli, nata poco dopo l’esperienza etrusca, Le grand magasin, pone – già con il titolo – l’accento sul commercio moderno. Si vede la facciata di un grande magazzino dove, nel lato di destra, vengono presentati vasi, busti e corsetti di tipo diverso, uno dei quali esposto su un manichino, mentre nella metà di sinistra si trovano due modelle quasi identiche, forse anche dipendenti o clienti, che si dirigono verso un punto indefinito, in alto. Entrambe portano il corsetto sotto un vestito accollato con gonna larga, producendo il forte contrasto privilegiato dagli amatori del corsetto fra il fianco molto largo e la vita stretta.

Il quadro è la testimonianza di una confessione, su cui nel 1941 Campigli scrisse un breve, ma importante saggio. Qui risulta evidente, inoltre, quella coesistenza specifica per molte opere di Campigli di antichità e mondo moderno, come vasi e corsetti, gli ultimi dei quali a Parigi (dove il quadro fu concepito), si potevano vedere in realtà nelle tante vetrine di negozi specializzati. Non si può affermare con certezza se l’artista abbia conosciuto la fotografia scattata da Eugène Atget nel 1912, Corsets, Boulevard de Strasbourg, anche se la cosa è molto probabile – si pensi soltanto alla entusiastica ricezione di Atget da parte dei Surrealisti nella metà degli anni ’20, – considerati i sorprendenti parallelismi esistenti. Le grand magasin è anche un quadro poetologico, che ha come tema il processo creativo. Questo magazzino sembra del tutto irreale: per l’offerta delle merci, delle quali fanno parte forse persino delle grate e una gabbia, ma soprattutto per la donna in basso a sinistra che, priva di piedi, sembra sospesa nell’aria e nel suo status è ascrivibile alla realtà fittizia della pittura. Viene qui esercitato il mestiere dell’arte, la «Manifattura Campigli» che, con l’esattezza di una formula, crea dai due elementi costitutivi – Vasi e Corsetti – donne in serie le quali, per la loro somiglianza, distinguibili soltanto per la grandezza, compaiono in innumerevoli variazioni nella sua opera.

Il busto forma universale

Nel breve saggio Campigli e i busti, redatto nel 1941, il pittore descrive il corsetto come il capo di abbigliamento per eccellenza della donna: una forma universalmente valida, conforme al suo archetipo. Campigli stesso con estrema franchezza alla fine confesserà di essere «un feticista del busto» e di possedere una biblioteca specializzata sul tema ed anche una vasta collezione di corsetti rispondente alle aspettative internazionali e storiche.

Il suo scritto apparve durante la seconda guerra mondiale che portò all’improvviso tramonto della Renaissance del corsetto nella moda femminile. Nel 1938/39 le riviste di moda annunciavano un «revival» del vitino di vespa: «Piccoli fianchi e nuovi corpetti stanno tornando: sono belli ma scomodi, eppure le donne li indosseranno». Così scriveva la disegnatrice di moda e moglie del direttore del grande magazzino di lusso di New York Saks-Fifth Avenue, Sophie Gimbel, per giustificare la sua commissione di corsetti Mainbocher. Campigli menziona questo fatto nel suo saggio. «Fino a due anni fa, ne abbiamo visti nelle vetrine della 5a Avenue».

Il corsetto Mainbocher deve la sua fama postuma ad una fotografia cha fa parte delle più importanti immagini di moda. Horst P. Horst, nella foto scattata l’11 agosto 1939 nello studio parigino di Vogue e poche settimane dopo pubblicata nell’edizione americana, mostra una modella, vista di schiena, che indossa soltanto il corsetto. La fotografia di Horst viene collocata nella tradizione dei nudi di schiena di Ingres, Nègre, Degas sino a Man Ray. Se si prescinde dal fatto che in Campigli, in genere, due donne vengono coinvolte nella scena, lo scatto di Horst sembra iconograficamente molto più vicino ad una serie di raffigurazioni di corsetti presenti nell’opera giovanile del pittore.

L’affresco, oggi introvabile, Donne che si vestono era, a suo tempo, il più presente nelle mostre (fra l’altro alla Biennale di Venezia nel 1928, probabilmente anche a Berlino nel 1929) e il più riprodotto. Sono stupefacenti le corrispondenze fra la fotografia di Horst e l’affresco realizzato più di tredici anni prima proprio nell’ambito dei motivi espressivi innovativi: il significato dell’architettura e della geometria per la composizione, la presenza sculturale di un corpo a torso (con lo sguardo rivolto verso il basso secondo lo stile greco classico), l’inclusione di effetti di luce e ombre (purtroppo non riconoscibili nelle maggior parte delle riproduzioni dell’affresco) e non per ultimo per la sua atmosfera erotica.

La trasposizione ad opera di Horst è più rastremata, principalmente per l’assenza di una seconda figura. Ma anche nell’affresco di Campigli il point of view è rivolto al corpo femminile come «oggetto» modellato per mezzo di un accessorio (inclusa l’analogia fra il corpo con il bustino e i capelli raccolti in alto), nel quale il corsetto, con la forza simbolica dei suoi cordoncini e nastri, dà spazio alla fantasia.

È esagerato affermare che – dato questo scenario – la pubblicazione di Campigli e i busti, iniziata circa un anno e mezzo dopo, è fra l’altro motivata dal fatto che il pittore reclami i diritti d’autore sul corsetto inteso come oggetto estetico dell’arte moderna? La sua previsione («Il busto rifiorirà nella moda di domani», ibidem) trovò conferma già dopo la seconda guerra mondiale grazie al New Look di Christian Dior.

È ovvio che Campigli, nella cui opera rivestono un significato centrale gli atti del vestire e i problemi riguardanti la toilette femminile come la pettinatura o i gioielli, registrasse gli sviluppi nella moda: «È curioso che con i miei vitini da vespa non solo ho rievocato anni passati, ma ho precorso la moda di questi anni. Anche altri particolari che ho sempre dipinto li trovo nella moda attuale: le gale, i cappelli piatti, i collari stretti a metà collo e non so che altro».

Alcuni ritratti di donne, divenute famose nel campo della moda contemporanea, testimoniano dei contatti reali. Il primo, risalente al 1933, mostra una delle più famose modelle di quel tempo, l’americana Elizabeth «Lee» Miller, che Campigli aveva incontrato più volte a Parigi e a New York all’inizio degli anni ’30 (…). La sua carriera era iniziata negli anni ’20 a New York su Vogue. Miller, in seguito, con l’apertura di un proprio studio fotografico alla fine del 1932 voltò pagina e oggi è considerata, non ultimo per le sue fotografie di guerra, una delle più importanti fotografe del XX secolo. Il ritratto che le fece Campigli, è senz’altro ispirato al suo ruolo nel film sperimentale Le sang d’un poète di Cocteau, che il pittore aveva recensito nel ’31 e nel quale Miller interpretava una statua che si sveglia alla vita, «una statua di gesso, all’antica, senza braccia, con una bellissima testa di donna un po’ androgina».

Un ritratto di Schiaparelli

La recensione, scritta dopo una mostra personale, precedentemente alla prima ufficiale, documenta il rapporto di Campigli con i rappresentanti del Surrealismo, dai quali in realtà aveva preso le distanze. Faceva parte di questa cerchia anche la disegnatrice italiana Elsa Schiaparelli, che allora viveva a Parigi. Esiste un ritratto del 1934, che fino ad oggi non si sapeva chi raffigurasse. Non solo la somiglianza fra il ritratto e le fotografie di Elsa Schiaparelli, ma anche il vistoso fiocco fanno pensare che nel ritratto sia rappresentata proprio lei, dal momento che il bowknot sweater era il suo marchio di fabbrica. Inoltre, il famoso profumo Shocking! del 1937, per il quale Leonor Fini, un’amica anche di Campigli, aveva abbozzato un flacone a forma di busto di donna, ispirato alla vita di Mae West, avrebbe potuto far parte dell’assortimento del suo Grand magasin.

Il terzo ritratto di donna mostra la disegnatrice americana Muriel King, a quel tempo molto nota che, come Schiaparelli, si considerava dichiaratamente un’artista. Campigli l’aveva conosciuta durante il suo soggiorno americano, in occasione della sua seconda mostra presso Julien Levy nel 1935 a New York e si era innamorato di lei. Nel suo ritratto la raffigura – diversamente da Edward Steichen su Vogue del 15 aprile 1933 – non in un elegante abito da sera da lei stessa disegnato, bensì con una specie di giacca da uomo che, nella sua sobrietà, ricorda quei modelli di costumi orientati sulla moda maschile della King per Katharine Hepburn nel film Sylvia Scarlett dello stesso anno. Campigli la raffigura ora di fronte, ora di profilo ispirandosi forse ai disegni di Muriel King stessa in cui la figurina viene rappresentata doppiamente, in modo che il suo abito possa essere visto da tutti i lati.

Il quarto ritratto del 1952 mostra la sarta e creatrice di moda Germana Marucelli, attiva a Milano, che contribuì al successo della moda made in Italy, con la sua caratteristica pettinatura raccolta in alto di profilo. A sinistra e a destra l’accompagnano due figurine dalla vita stretta, un tipico motivo di Campigli, ma in questo contesto anche una chiara allusione al ritorno di Marucelli, prima ancora del New Look di Dior, a un abbigliamento fornito di corsetto. Campigli disegnò motivi di stoffe per la sua collezione della primavera-estate del 1951. (…)

Avedon, il collezionista

A conclusione di questa ricerca biografica sembra molto più che un dettaglio interessante che due dei più importanti fotografi di moda, Henry Clarke e Richard Avedon, avessero acquistato singolarmente un dipinto di Campigli per la propria collezione d’arte. Dopo la sua morte, i familiari di Avedon raccontarono che egli aveva sistemato Due teste su uno scaffale nella sua stanza di soggiorno, al di sopra del divano, in modo che il quadro «saltava addosso» immancabilmente, a chi vi si sedeva. Il 6 maggio 1957 Avedon fece un servizio fotografico a New York con Marilyn Monroe e Arthur Miller. Furono scattate 144 fotografie che mostrano tutte su uno sfondo uniformemente grigio Miller che sta seduto dritto e un po’ rigido e viene abbracciato da dietro, in pose diverse, da Monroe.

Anche se l’aspetto psicologico del legame matrimoniale Monroe/Miller era certamente diverso che nel dipinto di Campigli, Avedon ricorre ai suoi stessi mezzi di composizione per mettere in evidenza il momento precario: non solo sceglie esattamente il medesimo particolare, ma pone le due teste nell’identica posizione, l’una rivolta verso l’altra, con un angolo di 90° gradi, una classica struttura post freudiana.