I risvolti segreti dell’estremismo religioso polacco sono indagati da Jan Komasa in Corpus Christi, capace di parlare a un pubblico che sa decodificare la dottrina, fin dai tempi del Dekalog di Kieslowski. Daniel (Bartosz Bielenia, classe 1992, premiato per questa interpretazione) il protagonista ospite del carcere minorile diventa un finto pretino, è un impostore ma non troppo: il seminario sarebbe la sua strada se non fosse finito in riformatorio e questo rende impossibile il cammino scelto, ma in cambio gli permette di imparare la durezza della vita e come difendersi e attaccare. «Da un fatto di cronaca» specificano le note al film, come fosse un caso isolato, mentre da noi la cronaca è sempre stata ricca di casi del genere: chi fingeva di benedire le case per rubare agli anziani, chi portava a segno truffe, fino al finto prete seriale che continuava a celebrare finti matrimoni, tutti episodi che rasentano la commedia all’italiana.

QUI INVECE abbiamo a che fare con una costante cinematografica che ha a che fare anche con l’analisi sociale oltre che con i riferimenti religiosi: la dottrina che prende vita nei comportamenti, le questioni di salvezza, di pentimento, come mettere in pratica atti vissuti in genere come pura formalità, la difficoltà di vivere in conformità con le convinzioni dichiarate, la messa in scena di sottili questioni che solo il diritto canonico può dirimere. E, primo fra tutti, l’attenzione agli «ultimi».

Daniel nel viaggio che lo porta a un altro istituto si trova a indossare l’abito e prende alloggio presso un vecchio parroco, dopo di che tutto precipita velocemente. Sarà lui a dover dire messa, confessare e assistere i parrocchiani: trova aiuto nel ricordo delle prediche del parroco dell’istituto dove era solito servire messa e perfino nel cellulare dove cerca per la prima volta le istruzioni su come confessare. L’abito talare fa emergere le sue qualità oratorie, i suoi trascorsi gli permettono di andare oltre le regole e toccare i cuori della gente. Nella piccola comunità dove è arrivato una tragedia è avvenuta poco tempo prima, due auto si sono scontrate frontalmente e sono morti parecchi giovani del posto, compreso il conducente dell’altra auto a cui nessuno ha più perdonato ritenendolo il colpevole: qui emergono le durezze, le ipocrisie dei paesani, i vizi (come l’ubriachezza, l’uso di droghe), le menzogne. Il corpo di Daniel riempie la scena, sia nelle funzioni che nei momenti in cui dà sfogo alla sua giovinezza, non mostrando baldanza per aver ingannato tutti, ma tormentandosi per tutte le problematiche che affronta, uomo troppo segnato dalla vita per aspirare alla perfezione. Si produce così un continuo interrogativo morale sul significato del peccato (capitale e veniale) che la fotografia di Piotr Sobocinski (figlio del grande Witold, ma anche lui ha collaborato con Kieslowski) non permette distrazioni.

JAN KOMASA (classe 1981) è stato assistente di Xawery Zulawski in Mowa Ptakow il controverso film scritto da Andrej Zulawski, ha tracciato lo stato delle cose della Polonia al momento dell’ingresso nella comunità europea in Oda do radosci (2005), ha descritto le reazioni del bullismo su un adolescente in Sala Samobojcow (Suicide Room, 2011) presentato alla Berlinale, ha raccontato la storia di Varsavia in un documentario e in Varsaw 44 (campione di incassi). Corpus Christi, presentato alle Giornate degli autori del 2019 e al festival di Toronto, ha ricevuto molti riconoscimenti (11 premi dell’Accademia polacca), candidato per la Polonia agli Oscar come miglior film internazionale, mentre il suo ultimo film The Hunter ha riscosso grande successo su Netflix.