«Solo le lapidi sono immutabili», l’architettura invece nutre in sé il germe del perenne rinnovamento. Negli ultimi tempi, Vito Acconci – se n’è andato all’età di 77 anni, a causa di un infarto – preferiva il design degli edifici all’arte tout court, proprio perché  materia plasmabile. E dalla fine degli anni Ottanta con la creazione dell’Acconci Studio, lavorava in team a progettare spazi urbani pubblici, case, giardini (anche trasportabili, come il Park up Building di Santiago de compostela e l’isola artificiale sul fiume Mur a Graz). D’altronde, il suo non era un atteggiamento eccentrico: performer, poeta sperimentale, bodyartista che cartografava la sua pelle a morsi, videomaker e fotografo, Acconci ha attraversato la scena culturale cercando di creare sempre situazioni collettive, interagendo con le paure, gli imbarazzi, i sogni inquieti dei suoi stessi coetanei (era l’epoca degli spari di Chris Burden e dei tagli di Gina Pane).

Nato nel Bronx nel 1940, figlio di un immigrato italiano che sembra lo portasse ai musei nei pomeriggi liberi, privo di una preparazione accademica ufficiale, Acconci è stato un pioniere della performance estrema, quella che duellava con il disgusto, il dolore fisico, lo stress e i tabù sociali, sessuali in primis. In Seed-bed, nel 1972, alla galleria Sonnabend di New York, i visitatori erano messi a dura prova: Acconci sdraiato sotto una piattaforma appena rialzata, si masturbava senza interruzione. Confessava fantasie erotiche in sussurri, costringendo lo spettatore a un voyeurismo inaspettato tramite monitor. In Conversions flirtava con il gender: la manipolazione della sua mascolinità – nascondeva il pene tra le gambe, nella penombra bruciava i propri peli sul petto – finiva ambiguamente in una sparizione del sesso che, in realtà, è una fellatio esplicita. Nei decenni successivi, il corpo cederà il posto alla voce dell’artista (presente in molte installazioni), mentre l’interesse di Acconci comincerà a migrare sullo spazio, coinvolgendo il pubblico nella messa in scena di una quotidianità espansa. Da lì all’architettura, il passo sarà breve.

L’io alienato, introverso e concentrato sulla sofferenza dell’essere al mondo in relazione con lo sguardo dell’altro, lascerà il posto alla «comunità urbana». L’utopia? «Realizzare dei luoghi da trasportare sulla schiena, o sulla testa, oppure al suo interno».