Da un paio di anni esiste una casa editrice che è emanazione della Ubi, l’Unione Buddhista Italiana. Si chiama Ubiliber, pubblica libri scritti da monaci e monache ovviamente buddisti, o da studiosi, e indirizzati ad una diffusione del pensiero e delle pratiche buddiste. Anche la poesia trova spazio in queste prime pubblicazioni e, ad oggi, ha pubblicato tre splendide antologie dedicate a figure di rilievo: Chiamami con i miei veri nomi, selezione di poesie e prose brevi del celebre monaco vietnamita Thich Nhat Hanh, L’essenziale, antologia della poesia del premio Pulitzer William Stanley Merwin, Vieni, ruba della praticante e poetessa americana Jane Hirshfield.

SI TRATTA DI TRE VOLUMI che avrebbero fatto la loro degna figura nelle collane di poesia di editori quali Mondadori o Einaudi, ma si sa, oramai quelli sono canali ristretti, dove a parte rare traduzioni, non si fa che rileggere sempre le medesime voci italiane. A capo delle scelte editoriali della Ubiliber sta un editor di lungo corso della Mondadori, Emanuele Basile, il quale si avvale non soltanto della propria esperienza ma anche di preziosi collaboratori, nonché dell’ampia platea di monaci e monache che appartengono alle diverse ramificazioni del buddismo attivo nel nostro paese. Ad esempio i versi di TNH e di Merwin sono stati tradotti da Livia Chandra Candiani, il saggio Ecodharma del professore David R Loy ha una postfazione del sottoscritto, e le traduzioni sono state cucite da Andrea Libero Carbone, Teresa Albanese, Emanuela Alverà, Sara Fruner e altri.

INIZIO UNA SERIE DI ARTICOLI per la Dendroteca dedicati alle raccolte di poesie pubblicate da questo editore, tutti e tre opere intimamente connesse con il «tema» della Natura. Chiamami con i miei veri nomi di Thich Nhat Hanh (1926-2022) fu pubblicato in origine nel 1999 dalla comunità del Plum Village, il villaggio fondato nel 1982 vicino Bordeaux e animato dal monaco e dalla sua nutrita e crescente comunità. La traduzione è a cura della Candiani, poetessa, autrice e buddista di lungo corso, con una misurata introduzione di Phap Ban, il monaco genovese Claudio Panarese (classe 1960). Il passo del poeta Nhat Hanh è lento, descrittivo, che si tratti di un pescatore che lancia la rete nelle acque, di una rana che si tuffa nello stagno o della visione di una notte stellata, la scrittura è diretta, essenziale, tende raramente alla metafora, semmai cerca di mediare tra lo stato percettivo alimentato dalla meditazione e l’imposizione ragionata dell’intelletto. I componimenti sono stati scritti tra i primi degli anni Cinquanta e il 1990, in buona misura si tratta di poesie che partono dal nutrimento della meditazione e della pratica quotidiana e dal commento alla drammatica cronaca di avvenimenti che hanno riguardato anzitutto, ma non soltanto, il paese di origine del nostro monaco. Della prima linea sono testimonianza poesie quali Messaggio, Lanka, Rive sconosciute, Mudra, Esperienza, Notte di preghiera, Contemplazione, La vera sorgente, Interessere, Poesia d’amore, Festa di luna piena, Silenzio e Tu sei il mio giardino. Altre poesie accompagnano le ferali notizie di drammatici avvenimenti, si tratta anzitutto degli anni Sessanta, quando il Vietnam era sprofondato nelle notte più cupa, tra bombardamenti, occupazioni militari, villaggi fortificati, corruzione e persecuzione dei buddisti; si legga ad esempio la poesia Lasciatemi restituire alla patria (pag. 35): «La notte scorsa sono morti quattro dei miei fratelli usate vi prego la pelle dei miei fratelli / per medicare le ferite aperte nella carne della nostra gente, / l’immenso corpo, / che pian piano agonizzando muore».

COME NON RICORDARCI dei «burning monks», i monaci che per protesta si consegnavano alle fiamme lungo le strade e nelle piazze? Ma si leggano anche Il nostro verde giardino, Pace, Fiamme di preghiera, Una preghiera per la pace, Condanna, Carne e pelle, Il fuoco che consuma mio fratello, I boat people, Una preghiera per la terra e Chiamami con i miei veri nomi, la poesia composta nel 1978 che da titolo all’intero volume. Non dimenticherei la toccante Una libera nuvola bianca, dedicata al ricordo di Trich Thien Minh, un monaco imprigionato e torturato, prima dal governo fantoccio del sud, quindi dai comunisti che presero il potere nel 1975. Non mancano brevi racconti in prosa, incantevoli, come Storia di un fiume (pp. 168-170) e la sequenza Il piccolo bufalo in cerca del sole (pp. 122-134), tra i presenti forse i miei testi preferiti.

OVVIAMENTE C’È UN MONDO in e dietro queste poesie, segnali, ricordi, forse anche qualche nostalgia, e dolore, che raggiunge la sensibilità dell’uomo e si riversa sulle pagine, a ondate, accompagnato talora dal desiderio di sperare che un giorno l’orrore possa finalmente terminare. In cinquant’anni quel mondo è completamente cambiato, la guerra però, lo vedi mo, non è una parola estinta. E chissà cosa potrebbero pensare i giovani vietnamiti dei nostri anni rileggendo queste poesie, se in loro esista un qualche legame con quel mondo che è stato travolto e insanguinato; sarà per loro come per noi quando sentiamo i nostri anziani parlare della seconda guerra mondiale? Di quegli anni di privazioni, di quel mondo più semplice dove si dice, non senza retorica, che si stava (forse) meglio?