La nuova mostra di Ron Mueck presentata alla Fondation Cartier (fino al 29 settembre) dopo quella del 2005, grazie alla proiezione di un film documentario realizzato da Gautier Deblonde nell’atelier londinese dell’artista australiano permette di decifrare piuttosto chiaramente non solo la tecnica, ma soprattutto lo spirito di quest’opera, a prima vista iperrealista. È invece assai straniante e diffonde un malessere, un’inquietudine sorda, che necessariamente la allontana dal naturalismo accademico o dalla pop.

[do action=”citazione”]Quando si osserva l’artista all’opera, siamo affascinati da quanto è ripetitivo e dalla concentrazione del suo lavoro. Mueck può passare vari giorni a riprodurre lo stesso movimento[/do]

Still Life: Ron Mueck at work è un documentario intimo, senza parole, che dura cinquanta minuti. È stato girato durante la realizzazione di tre opere inedite esposte alla Fondation Cartier: due adolescenti in strada (Young couple), una mamma con bambino (Woman with shopping) e una coppia sulla spiaggia (Couple under umbrella). Quest’ultima è di grandi dimensioni, sovradimensionata rispetto alla taglia umana, mentre le prime due sono più piccole. Lo spiazzamento rispetto alla dimensione naturale accentua il profondo umanesimo che emana il lavoro di Mueck, l’inquietante rapporto con il corpo e la vita che generano compassione per la condizione degli individui. La novità di questi ultimi lavori è l’introduzione della problematica che riguarda le relazioni umane, al di là della solitudine dei lavori precedenti.

«Prima di tutto – spiega il regista del documentario, il fotografo Gautier Deblonde – è un film sul tempo. Ciò che colpisce di più, forse la cosa più affascinante quando si osserva questo artista all’opera, è tutto quel che vi troviamo di ripetitivo e la concentrazione del suo lavoro. Mueck può passare vari giorni a riprodurre lo stesso movimento…». Nel film compaiono le due assistenti dell’artista e Chalier Clark, che lo segue da anni. I movimenti sono lenti, l’atmosfera è quasi monacale. «Tecnicamente Ron Mueck è estremamente perfezionista – continua Deblonde – e le tre opere che via via scopriamo sono ancora più realiste delle precedenti. Nel film, lo vediamo lavorare sulla scultura della madre e del bambino, di fronte a noi: per il momento è argilla pura, che lui liscia con una spugna. Fa la toilette a questa donna e di colpo sembra che prenda vita. In realtà, è la parte più importante della realizzazione della scultura: Ron Mueck lavora davvero da solo in questa fase perché è qui che dà alle sue sculture la forma finale, fino poi a definire minuziosamente tutti i dettagli».

In seguito, verrà costruito uno stampo su cui verrà colata la resina. Su questa, verranno attaccati capelli, peli, occhi, la pelle con le diverse sfumature e imperfezioni. Le dimensioni rimandano alla distanza dell’opera dall’artista, mai in taglia reale proprio per allontanarsi dal ritratto «classico». Per esempio, nella scultura dedicata al padre morto, più piccola del reale, Mueck comunica il distacco e il doloroso addio alla vita.
Il procedimento inizia con degli schizzi a matita o a biro su un foglio A4. Poi Mueck realizza delle sculture in cera o argilla. Il personaggio è creato nudo e solo in seguito sarà ricoperto dai vestiti. Unicamente le parti visibili saranno terminate nei dettagli della pelle, con rughe e pori. La «statua», liberata dallo stampo, sarà poi dotata di capelli, peli ecc. Gli occhi sono dipinti con precisione da miniaturista, gli accessori (scarpe ecc.) vengono invece scolpiti. Le fonti di Mueck – che si possono rintracciare nel documentario – sono le più disparate: si va dai ritagli di stampa ai fumetti, dalle immagini tratte dalla storia dell’arte ai riferimenti a favole o antiche leggende.
In mostra, oltre alle tre opere realizzate ad hoc per la Fondation Cartier, ci sono altri sei lavori recenti: Still Life (2009), che si ricollega alla tradizione delle nature morte, Woman with Sticks, che rimanda alle storie di streghe, passando per Drift, un uomo su un materassino e la figura di un giovane nero che osserva la ferita che ha sul corpo (il contesto non è evocato, diversamente dalle sculture di denuncia di Duane Hanson).
L’enorme testa addormentata Mask II, vuota dietro, riconduce infine al sogno, alla tranquilla disperazione della condizione umana.