Eraserhead era stato un evento epocale ma sotterraneo. L’influenza del film, uscito nel 1977, aveva provocato un vero e proprio cambiamento di paradigma nel cinema statunitense, portando alla luce un agglomerato di tensioni, pulsioni e visioni che raccontavano un altro paese e un altro cinema. Non quello hollywoodiano della fine degli anni Settanta. Che aveva altri incubi cui rendere conto. Lynch con Eraserhead crea un film che è già un mondo.

Autosufficiente anche se apertissimo su tutto ciò che si muoveva ai bordi esterni della sua galassia. Per cui la sorpresa e lo sconcerto nel vedere Lynch passare dall’autarchia proto industrial di Eraserhead alle brume vittoriane di Elephant Man non poteva essere maggiore. Coloro che avevano mancato le proiezioni carbonare del suo primo film nei cineclub più militanti come il Filmstudio di Roma o il No Kinospazio di Napoli, e avendo sentito parlare dell’esordio lynchiano per superlativi ditirambici, non nascondevano il loro scetticismo. Elephant Man, ai loro occhi, era un esercizio di stile, nel migliore dei casi, nel peggiore un melodramma disneyano con velleità autoriali. Condito dalla solita moraletta ipocrita del diverso che è migliore è più bello di tutti gli altri «uguali».

IN REALTÀ Lynch, da sempre straordinario (de)pensatore di non-strategie, è come se creasse una genealogia dell’universo di Eraserhead. Lavorando a posteriori. I fumi e le polveri sottili dell’esordio trovano la loro origini nell’Inghilterra della rivoluzione industriale, messa in scena con una sensibilità che oggi si definirebbe steampunk (e Sterling e compagni devono averlo mandato a memoria Elephant Man). Lynch non si limita a giocare con i segni denotativi di un’era, ma ricrea la scena primaria del cervello che pensa le immagini della rivoluzione industriale. Elephant Man nel racconto esemplare di una mostruosità analizzata anche da Leslie Fiedler nel suo storico saggio Freaks, mette in prospettiva l’elemento del corpo (e quindi dell’animale) in un contesto (la rivoluzione industriale), che di fatto progetta il superamento di entrambi. Elephant Man è la possibilità impensabile di tutti i corpi (la mostruosità ultima come monito di tutto ciò che non si vede ancora) agli albori della possibilità di razionalizzare, organizzare e ridisegnare il mondo attraverso l’irreggimentazione del lavoro (per dirla con Hawks «work» – il lavoro dell’uomo – diventa «labour», mano d’opera salariata).

«ELEPHANT MAN» è la differenza, il resto di niente, se si vuole, di un progetto politico che ristruttura il mondo attraverso la forza lavoro e la produzione, mettendo fra parentesi il caos del corpo, il desiderio e la seduzione. Non a caso Fiedler nel ripercorrere la storia di Merrick, il vero uomo-elefante, osserva come l’unica parte del suo corpo non affetta dai mostruosi tumori fosse il pene. Lynch, nonostante nel film badi bene a non andare oltre il mandato produttivo della confezione assegnatali, è come se conservasse sotto traccia questo elemento disturbante. Merrick è già un emissario di Dune, un ambasciatore di un pianeta lontano.
L’altro elemento che creava problema ai critici del tempo era la presenza in qualità di produttore di Mel Brooks, all’epoca ancora in grado di attirare folle paganti al cinema, che sarebbe ritornato sulle tracce di uomini ai confini del regno animale con La mosca di David Cronenberg.

Lynch, sotto l’occhio benevolo di Brooks, può esplorare liberamente un mondo che gli si offre al crocevia dove i carnival show s’intrecciano con le lanterne magiche e la prime catene di montaggio. In fondo, ci racconta come è sorto il cosiddetto immaginario collettivo, prodotto di scarto del sogno di macchine che lavorano all’unisono (e che inventano – quando tacciono – il «tempo libero»), avvolta ancora fra le nebbie di una cultura letteraria, idealista, che considera la macchina la morte della cultura classica. Il suo film del 1980 è la caduta dell’elemento animale, del caos primordiale, di fronte alla mente che cancella della rivoluzione industriale. Nel passo caracollante di Freddie Jones, che con Fellini si imbarcherà in un altro viaggio alla fine di una storia con E la nave va, riverbera il carattere profondamente dickensiano del lavoro di Lynch.

IL FILM, che quest’anno compie 40 anni e ritorna in sala il 21 settembre distribuito dalla Cineteca di Bologna, restaurato da StudioCanal con la supervisione di Lynch, dimostra da un lato che il regista di Eraserhead, in perfetto stile hollywoodiano, riesce a lavorare al servizio di una macchina senza cancellarsi. Anzi: a manifestarsi nei dettagli differenziali. Rivisto oggi il film si rivela come un’opera cruciale nel percorso del regista. Inquieta e inquietante. «Mi interessano gli stati umani distorti» spiegava Lynch all’epoca. «E mi interessano gli stati psicologici. Potevo immaginarmelo bene, Elephant Man seduto vicino a una roccia, vicino a dei binari. E sullo sfondo delle fabbriche nere in piena attività. Il fumo nerastro, i vapori caldi. E la sua carne, non la sua proboscide, ma la sua testa, in evidenza contro quelle fabbriche. Per me quest’immagine che avevo nella testa rivela moltissimo della nostra epoca cosiddetta moderna».