Una signora elegante e bionda accoglie Pasolini all’aeroporto di Stoccolma convinta che sarà il prossimo connazionale a prendere il Nobel dopo Montale. E chissà se lui sarebbe stato d’accordo. Sartre l’aveva rifiutato pochi anni prima dicendo che lo scrittore non deve «lasciarsi trasformare in istituzione, anche se questo avviene nelle forme più onorevoli».
Quando chiedono a Pasolini cosa pensa del celebre riconoscimento assegnato a Montale, lui risponde che avrebbero fatto meglio a darlo a Sandro Penna «destinato a essere continuamente un poeta emarginato».

Il 31 ottobre vola a Parigi per seguire il doppiaggio di Salò e il giorno dopo sta in Italia.
Le ultime cose che fa in vita sono state raccontate spesso. Una cena da Pommidoro insieme a Ninetto Davoli e la sua famiglia. Pasolini ordina patate e bistecca, gli altri: salsicce e frutta. Paga undicimila lire con un assegno della Cassa di Risparmio di Roma, sede di via Giacinto Carini a Monteverde Vecchio. Il giorno appresso la tavola è ancora apparecchiata. «Vidi i bicchieri ancora lì sul tavolo come li avevo lasciati. E quando vidi nella padella l’olio che avevo adoperato per friggere le sue patate, cominciai a piangere» dice la padrona della trattoria, Anna.

Pasolini si ferma ai giardinetti della stazione Termini. Sull’Alfa Romeo 2000 GT, appena lavata dalla cugina Graziella, monta Pino Pelosi detto la Rana. Imboccano l’Ostiense. Si fermano al Biondo Tevere dove il giovane mangia primo e secondo. Poi se ne vanno verso l’Idroscalo.
Quando Anna sparecchia la tavola di Pommidoro è già successo tutto.
«Ieri mattina, 2 novembre 2020, il sole è sorto alle 6:41».

Il 2 novembre del ’75 avrà fatto capoccella più o meno alla stessa ora. O forse era talmente scuro e piovoso che l’alba dev’essere stata uno schifo. In quel gallinaro di baracche affacciate su un campetto da calcio a un passo dal mare ci sta una donna di quarantasei anni, Lollobrigida Maria Teresa moglie di Principessa Alfredo, muratore di due anni più vecchio. C’hanno due figli: Gianfranco e Mimma di anni 27 e 23. Sono appena arrivati da un’altra periferia della città. Abitano dalle parti della Tangenziale all’altezza di Tor de’ Schiavi. C’hanno una «casetta», dicono, in quell’angolo baraccato di fronte al mare. Nella denuncia di Alfredo è riportata la frase della moglie che per prima vede il corpo del poeta: al momento in cui si scendeva dall’autovettura mia moglie esclamava: «In questa strada buttano sempre la monnezza».

Dalla Svezia dei Nobel, attraverso la Ville Lumière per andare a morire all’Idroscalo di Ostia sarebbe un viaggio impensabile per un poeta laureato che si muove tra bossi ligustri o acanti, ma è strano anche per quelli che si contentano dell’odore dei limoni.
Pasolini non apparteneva a nessuna delle due categorie.
Tre giorni dopo Rossana Rossanda predisse senza grande fatica che presto gli sarebbero state dedicate strade e che ognuno avrebbe cercato di trascinarlo dalla propria parte. L’avrebbero fatto i comunisti con i quali discusse fin dai tempi in cui gli ammazzarono il fratello, anche se lui, coerente e testardo, dichiarò sempre il proprio voto al Pci. L’avrebbero fatto gli intellettuali «cauti distillatori di parole e posizioni, pacifici fruitori della separazione fra letteratura e vita». Ci avrebbero guadagnato qualcosa anche i commentatori più conservatori, persino quelli di destra leggendo a sproposito le sue parole sul ’68 e sull’aborto. E a questo saccheggio si uniscono ancora oggi inevitabilmente gli amanti del mistero e del complotto. Tutto falso e contemporaneamente tutto vero o, forse, tutto un impasto di tracce cancellate dalla pioggia di quella notte e coperte dagli avanzi d’una storia che da secoli ha dato soltanto servi.

Il corpo del poeta è stato ritrovato sulla terra fangosa di fronte al mare dell’Idroscalo perché frequentava quei «luoghi sconfinati dove credi che la città finisca, e dove invece ricomincia». Altri sono morti nel proprio letto perché, inevitabilmente, andiamo a morire negli stessi posti che frequentiamo da vivi. E Pasolini si girava tutta quella città infinita per affondare nella sua straziante bellezza rischiando ogni notte di non riemergere vivo. «Meglio la morte che rinunciarvi!», scriveva. Ma senza condannare chi mescolava l’omicidio a quella disperata vitalità.

Nel pezzo in prima pagina sul manifesto del 4 novembre Rossanda scrisse qualcosa di più d’una facile profezia. Dichiarò che probabilmente «se ne fosse uscito vivo, oggi sarebbe dalla parte del diciassettenne che lo ammazzava di botte. Maledicendolo, ma con lui».
E così è morto diventando tutt’uno col mondo nel quale si tuffava. Azzerando la distanza tra le parole e le cose.
Oggi, tanti anni e tante chiacchiere dopo quell’alba, ci sarebbe da rispondere alla signora Lollobrigida: «È vero, signò! In questa strada buttano sempre la monnezza».