Dopo un’attesa lunga, alimentata magistralmente da Guadagnino, attraverso il rilascio lento, oculato (indirizzato all’occhio dello spettatore in misura di lampi, lacerti immaginifici, stilizzazioni d’esse) di locandine, rare foto dal set, trailer, stralci di musica; e attraversata d’altra parte da qualche scetticismo, addirittura da rifiuti preventivi (come era già successo per Call Me By Your Name); e dopo il passaggio così carico di aspettative allo scorso Festival di Venezia, arriva nelle sale Suspiria, non rifacimento fedele, bensì sublime, vibrante tradimento del film di Dario Argento del 1977.

Il che è sacrosanto, perché Guadagnino vuole partire da quell’atmosfera crepuscolare degli anni Settanta a cui è legato – come lo siamo tutti, cinefili che abbiamo lambito in qualche modo quel tempo mentre traguardavamo qualche pagina d’«Urania» o orecchiavamo sequenze e frequenze di Battiato da un giradischi (per me era Non si sevizia un paperino e la scena di un corpo precipitante da una rupe, il viso sfigurato dalle rocce, ad animare cupamente e con cupidigia i miei sogni di bambino) -, per reinventare quella luce, quel crepuscolo di lampada, di vetro smerigliato; per fare il suo film d’orrore, il più extraterritoriale dei film italiani usciti in questi anni.

PROPRIO nel montaggio, ancora magistrale di Walter Fasano (uno dei migliori montatori in circolazione); nell’interrelazione salda, a tratti spaesante tra le immagini – oltre a quelle d’interni in preda a una febbre di graffi, quelle suburbane che scorrono in metro, costeggiando i muri scalcinati, le strade, il Muro, tetro puntello all’accademia di danza – e la musica di Thom Yorke, quando ad un tratto arriva Suspirium e gli sfondi, i visi sullo schermo sospirano, sfolgorano; e nella recita, nella dizione multilinguistica, nella gestica così densa delle danzatrici.

Ecco appunto, i gesti, i corpi, la danza: l’incarnazione alchemica entro la materia – l’epidermide flessuosa, saltante – di sequenze e frequenze, vettori latenti di un mondo invisibile, potenziale, fatto di idee, versi, ultrasuoni che arrivano a baluginare nella mente, coreografie che confluiscono nell’esaltazione dell’opera. Esaltazione, nell’opera, di tutto un virtuale che aspetta, fuori dal quadro, di essere concretato nel codice, di sedimentarsi in testo, nella combinazione di movimenti della danza (quella di Susy/Dakota Johnson), estatica, erotica, che è, alla fine, pienamente, propriamente etica, «sociale»: è la politica, l’unica possibile, non dibattibile, non suscettibile di opinione, quella che dà un senso, un’estetica a quell’impalcatura di materia ottusa che sarebbe altrimenti il mondo.

IN EFFETTI uno degli aspetti del film che si rimprovera a Guadagnino è il presunto sovraccarico di temi: Storia, femminismo, terrorismo, stregoneria, politica; tutte, a ben guardare, metonimie del coreografico, comprese nel dialettico, nell’inclinazione stessa dell’immagine cinematografica che conferisce un significato, cioè un costrutto, politico, alle cose. La femminilità, la maternità come antifona, sottofondo inalienabile e inascoltato della Storia; il covare dentro una voluttà sediziosa, anche incestuosa, stregonesca, una forza creatrice, scenografica che è quella che presiede al Volk, il balletto finale, e che sola può dare senso, negli anfratti di un ritmo ancestrale, mitico, al volk, il popolo, al di là, a dispetto, del Muro.

Ecco, Suspiria guarda al mito, che ora prende corpo nelle movenze del sabba e nel contesto oscuro di un’accademia in decadenza viscontiana, in cui il marrone, il grigio, l’ocra di lume smorto, l’opalino hanno sostituito i rossi intensi del film di Argento e si specchiano costantemente nella scena. È un ambiente di saloni dai pavimenti geometrici e dal proliferare di falde di specchi, quella superficie che moltiplica l’immagine alludendo, adducendo un infinito, una dimensione (quella del mito, del cinema) che si apre al-di-là, come quella carpenteriana del Signore del male. Qui però il passaggio è anche fisico: porta a congegno su stanze segrete, sinistre, sostenute da bisbigli, sibili improvvisi, scricchiolii di scalinate, soffitte; e varco sull’antro in cui si compie l’ultima, definitiva danza, che è astrazione di volti, di forme, del movimento stesso, e di colori, in cui il rosso è tornato rosso