Il famoso personaggio dantesco ben rappresenta la situazione della Rai, che la legge n.220 del 28 dicembre 2015, voluta e imposta da Renzi, volle trasformare in una sorta di normale azienda privata con un amministratore delegato dai poteri pressoché assoluti per un triennio.

Ecco, il risultato è stato micidiale: il primo Ad Antonio Campo Dall’Orto rimase in carica da agosto 2015 a giugno 2017; il successore Mario Orfeo da giugno 2017 a luglio 2018. Ora, secondo una voce – appena rilanciata da Il Foglio – che gira da diversi giorni, sarebbe il turno di Fabrizio Salini. Entrato in scena alla fine di luglio 2018. Ancora una volta, meno di due anni di durata.

Intendiamoci. Se prendiamo in esame i mandati dei più recenti predecessori, solo Biagio Agnes, Gianni Pasquarelli, Pier Luigi Celli, Flavio Cattaneo e Luigi Gubitosi hanno superato il biennio. Tuttavia, i poteri erano formalmente minori secondo la legge allora in vigore. Chissà come finirà l’intera vicenda. Comunque, ancora una volta la leggina natalizia del 2015 si è rivelata sbagliata e inefficace, oltre che in odore di incostituzionalità.

Del resto, Salini aveva affidato la sua reputazione manageriale ad un piano industriale che intendeva superare la tradizionale suddivisione verticale, per approdare ad un apparato orizzontale tematico e trasversale rispetto ai canali. Di quel testo non sembra esserci neppure memoria, essendo finito in qualche soffitta. Eppure, tanto se ne discusse, persino prefigurando un inesorabile superamento della lottizzazione. E si è visto, con le ultime nomine: dove si è andati oltre gli antichi fasti spartitori.

Non solo. Se il bilancio di quest’anno pare in sostanziale pareggio, quello del 2021 si annuncia pesante. Si sussurra di perdite per 150/200 milioni di euro. Colpa anche del Covid-19 e della forte diminuzione delle entrate pubblicitarie, nonché di ulteriori capitoli di introito.

Insomma, la struttura di governo congegnata su misura per tenere sotto controllo il servizio pubblico da parte del governo è giunta al capolinea. Senza dimenticare le varie richieste di dimissioni del presidente Foa per comportamenti giudicati inaccettabili. Una Rai con un vertice discusso e indebolito offre facilmente il fianco ad offensive strumentali, come è successo recentemente nella commissione parlamentare di vigilanza proprio sul tema pubblicitario.

Si mormora di accordi sotto banco tra parti del Partito democratico, Italia Viva e magari qualche leghista (come mai se no il salvataggio di Salvini deciso nella giunta del Senato con il non voto del trio renziano?): dalla Rai, alle prossime nomine delle autorità (dati personali e comunicazioni).

Magari pure oltre i confini settoriali, dentro i rumoreggiamenti sugli scenari post pandemia. Ma che senso avrebbe – nel caso- sostituire Salini per il solo anno residuo del mandato? Meglio cancellare l’attuale leggina, ormai misconosciuta da tanti. Si riporti l’indirizzo sotto l’alveo del parlamento, si definiscano durate adeguate – cinque anni, non tre – per le funzioni apicali e si metta un po’ d’ordine nei compensi: il tetto dei 240.000 euro vale per l’amministratore delegato e non per il presidente di «Rai Way» (consociata per le infrastrutture e i servizi di rete), che ha un emolumento doppio. Pasticci da evitare.

P.S. Della serie deboli in geografia. Nella puntata dello scorso 21 maggio a «L’eredità», il quiz preserale di Rai 1, alla domanda sulla capitale di Israele, la concorrente rispondeva giustamente Tel Aviv. No, Gerusalemme, veniva corretta.
Il tutto è finito in un’interrogazione parlamentare. Come minimo.