C’è un giardino, nel Mediterraneo, che è esperimento di pensiero dell’operare artistico. È Son Abrines, la casa-studio di Joan Miró a Palma di Maiorca, primo nucleo di quella che dal 1981 è la Fundació Pilar i Joan Miró. L’artista spagnolo lascia Barcellona nel 1954 per trasferirsi in un podere acquistato nell’isola, sulla collina di Cala Major. Maiorca era meta estiva nell’infanzia, dall’età di sette anni, e terra natia dei nonni materni, della madre e della moglie, Pilar Juncosa. Qui, «a respirare la freschezza del cosmo come appena creato» (Miró 1948), si realizza il sogno di una poetica analoga al ciclo dell’esistenza: nascita, crescita, assestamento e destino. Poetica non biografica ma biologica, segnata da passaggi comuni a tutti i viventi. E modellata sugli ecosistemi naturali, per vincere la morte.
L’attaccamento alla terra («per spiccare il volo verso il cielo») Miró lo sente in due precisi habitat: a Tarragona, nella casa di campagna di Mont-roig, e a Palma di Maiorca. Quadri come La fattoria (1921-1922), comperato da Ernest Hemingway, testimoniano del «surrealismo contadino, terriero» (Michel Leiris) che lo porta a convertire le stelle in radici di patate. In guerra e sotto il regime franchista Maiorca è il posto giusto per continuare la serie delle Costellazioni, «magnetic fields» (Rosalind Krauss). Perché «il coraggio consiste nel restarsene accanto alla natura, che non tiene conto dei nostri disastri» (Joan Miró a Raymond Queneau).

Tra minerali e palme da dattero

L’atelier di Son Abrines è immerso nel verde e ha un prospetto esterno curvilineo, in rima con la vegetazione autoctona, scelta e curata, al tempo, dall’artista. Carrubi, palme da dattero, aloe, ficus e piante grasse sono frammisti a pietre e minerali antropomorfi e alle sue ceramiche e sculture, rigorosamente all’aperto. L’edificio è progettato da Josep Lluís Sert, poi direttore della Harvard University Graduate School of Design e autore, nel 1937, del padiglione spagnolo all’Expo di Parigi, dove erano esposti insieme Guernica di Picasso e il murales di Miró El Segador (Payés catalán en rebeldía).
Il nome di Miró è legato alla rappresentazione del mondo naturale per il modo in cui l’autoritratto pittorico incrocia, prima, il motivo del «contadino catalano», quindi il genere del paesaggio. In misura incomparabile nel Novecento Miró converte la soggettività nelle visioni della propria terra. L’autoritratto prende i panni di un ritratto e il volto risulta mappa, superficie di iscrizione. La regola è dipingersi in divenire. Nel bellissimo esemplare conservato al Moma di New York (Autoritratto, 1937-1939) e nelle incisioni a puntasecca eseguite con Louis Marcoussis (Ritratto di Miró, 1938) l’effigie dell’artista è rivestita di petali, stelle, fiori, foglie, gocce. Alcuni sostano sul copricapo, altri premono con energia sul volto, varcandone pareti e cavità. Nella versione di Detroit, Institute of Arts Museum (Autoritratto II, 1938), il mondo finisce per inglobare il corpo con agenti esterni elevati al rango di «autoritratto»: di nuovo stelle, fiamme, lune, soli. Un vero «pan-orama», percetti a tutto tondo. Il proposito non si spegne, documentato da scritti e disegni. «Lavorare all’Autoritratto che ho a Parigi come se fosse un paesaggio. Le vene come se fossero fiumi, la barba delle guance come se i peli fossero l’erba di un prato, i volumi del viso come rilievi del terreno» (Miró, 1940-1941).
Nel 1959 l’artista annette allo studio Sert il vicino casolare di Son Boter, raggiungibile attraverso un sentiero alberato su gradini di pietra. Questa ex fattoria del XVIII secolo, ricoperta di bouganvilles e in un punto panoramico sul mare, ha soffitti alti che permettono all’artista di preparare tele e installazioni monumentali. È adibita anche alla stampa di incisioni e acqueforti. Un terzo atelier, nel ’62, sarà interamente destinato alla produzione in serie. Per Miró non conta infatti l’oggetto artistico, ma il suo tramandarsi, i semi che può spargere.
Rafael Alberti sintetizza il senso di questa attività nella raccolta di poesie Maravillas con variaciones acrósticas en el jardín de Miró (1975), coeva alle trentatre´ incisioni di Miró sul Cantico delle creature di Francesco d’Assisi e illustrata dall’artista con litografie originali. In Miróflor l’acrostico Miropilar evoca specie botaniche del giardino di Maiorca: «Malva real camino de orión / Ipomea enredándose en el aire / Romero con esclavina azul / Oleandro suavemente furioso / Pensamiento en ascenso hacia el amado / Iris tocado a dos colores / Lavanda venida del mar / Amapola de corazón azul / Rosa de los vientos cantados».
La stessa Fondazione Pilar i Joan Miró è istituita con la volontà di donare i propri luoghi di vita – opere, disegni, strumenti del mestiere – per un’investigazione dinamica dell’arte, fuori dagli schemi museali. Il contrario dell’hortus conclusus. La struttura che la ospita, in un’area prossima a Son Abrin, sul lato prospiciente la baia, è un esempio di riqualificazione del paesaggio.
Fra gli anni Sessanta e Settanta Cala Major è deturpata da costruzioni che precludono l’orizzonte. Rafael Moneo, l’architetto della Fondazione, concepisce allora un volume su più quote a forma di stella, aguzzo e dal tetto piatto, simile a una fortezza che resiste all’ambiente ostile. La sala principale, una galleria, è a un livello inferiore rispetto all’ingresso e ha la copertura rivestita da vasche d’acqua, che amplificano la distanza dai dintorni e recuperano il mare perduto. Fessure geometriche nella muratura filtrano la luce, vetrate affacciano sul giardino.

Il disegno da irrigare

A Maiorca Miró ha spazio per riguardare quaderni e vecchi quadri e avviare un processo di revisione critica: «Vedo il mio studio come un orto; lì ci sono i carciofi, qui le patate. Per far venire su i frutti, bisogna tagliare le foglie. A un dato momento bisogna potare. Lavoro come un giardiniere o un vignaiolo. Le cose vengono lentamente. Il mio vocabolario di forme, per esempio, non l’ho scoperto tutto in una volta; si è formato quasi a mia insaputa. Le cose seguono il loro corso naturale. Crescono, maturano. Bisogna innestare. Bisogna irrigare» (Miró, 1959). Le stanze degli atelier appaiono piantagioni di oggetti di vario tipo, «punti di partenza» dell’artista: piccoli oggetti, fotografie, cartoline, souvenir archiviati dentro armadi o appuntati alle pareti con fare tassonomico. «Temi che non mi abbandonano mai, che ritornano (…). Li accumulo, come se fossero semi. Alcuni germogliano, altri no» (Miró, 1959). Questa parabola è la chiave per comprenderne l’opera. La tesi di una «scrittura» privatissima e impersonale è falsa o pretestuosa – agevola le interpretazioni più aberranti. I «miroglifici» (Queneau) sono figure in metamorfosi: cambiano (metà), come gli esseri viventi, pur mantenendo inalterati certi tratti (morphé). Configurazioni primigenie tese fra i due poli della terra e del cielo, organiche – piede, mano, occhio, cuore, seno, genitali… – o cosmiche – sole, luna, uccello, stella…
In tarda età, l’artista rafforza la parabola del giardiniere. Da un lato il modus operandi in pittura simula la coltivazione della terra. Il supporto della tela, più grande e collocato a pavimento, diventa un campo su cui Miró interviene gestualmente. Vi cammina sopra, lo fora o brucia, spruzzandovi o colandovi colore. E al pennello sostituisce piedi, mani, dita (vedi Toile brûlée, 1973). Dall’altro, viceversa, il giardino di Maiorca rende esperibili alcuni miroglifici: la Fondazione a guisa di «stella»; la «scala dell’evasione», legante fra terrestre (Son Abrines) e celeste (Son Boter); l’aspetto della «spirale», centrifuga, organica e cosmica, per aiuole e porzioni di terreno, suggello di fertilità. Un settore del complesso è propriamente un orto, ricco di specie da frutto, pomodori e piante aromatiche.
L’immaginazione traduce la realtà che, a sua volta, feconda l’immaginazione, senza scollamento finzionale. Miró ci fa conoscere le leggi della fisica, l’animo delle cose.