Il fallimento del contact tracing è ormai un dato acquisito e ammesso dalle stesse Asl. Eppure, nei dati inviati dalle regioni al governo questa debacle non compare. Secondo gli indicatori delle regioni ben 13 su 20 effettuano il tracciamento dei contatti su oltre il 90% dei casi, e solo Liguria e Toscana sarebbero sotto il 50%. Queste cifre indicano la percentuale di casi confermati su cui si effettua «una regolare indagine epidemiologica con ricerca dei contatti stretti». La performance sul tracciamento dei contatti è ritenuta molto importante dalla cabina di regia formata da Ministero della salute, Istituto superiore di sanità e conferenza delle regioni per assegnare i colori giallo, arancione o rosso. Le regioni con un contact tracing inferiore al 90% sono state prima o poi classificate in zona rossa o arancione.

Per ogni test positivo, gli operatori dei servizi di igiene e prevenzione dovrebbero contattare l’interessato e ricostruire la sua rete di contatti, collegando i focolai tra loro e isolando le persone potenzialmente contagiate prima che trasmettano ulteriormente il virus. «In tempi normali richiederebbe due ore per ogni caso» spiega al manifesto un addetto al tracciamento di una Asl del nord Italia. «Ora però i casi da seguire sono troppi. Perciò ci limitiamo ai contatti più stretti e non approfondiamo più di tanto. Ma anche così non basta a smaltirli tutti». Il dato più eclatante è quello della Campania, che già il 22 ottobre era «in grande affanno» sul tracciamento per ammissione di Stefano Pisani, membro dell’unità di crisi regionale. Quel giorno si contavano circa 1.500 nuovi casi e nei dieci giorni successivi sarebbero persino raddoppiati. Eppure, stando a quanto dichiara la regione, nel mese di ottobre l’indagine epidemiologica sarebbe stata effettuata su 50.261 casi su 52.031, il 96,6%, grazie a circa 200 operatori attivi nella regione. Significa che ogni operatore ha tracciato in un mese circa 250 positivi, un record nazionale.

In Emilia-Romagna va ancora meglio, con il 100% dei contatti tracciati in ottobre. Secondo i dati dichiarati, l’indagine epidemiologica ha riguardato 4.177 casi su 4.177. Peccato che nella regione i positivi registrati in ottobre siano stati 22.183, secondo la Protezione civile, ovvero cinque volte di più. La percentuale reale del contact tracing sarebbe dunque solo del 19%. D’altronde, era stato lo stesso assessore regionale alla sanità Raffaele Donini a denunciare che il tracciamento è «obiettivamente in difficoltà man mano che l’onda si alza», chiedendo nuovo personale al governo. Ottima performance ufficialmente anche per la Sardegna, 99% di tracciamento su 2.109 casi. Ma sull’isola in ottobre se ne sono contati quasi il triplo, cioè 5.843 dalle tabelle della Protezione Civile. La percentuale reale scenderebbe al 36%. In Piemonte, altra zona rossa, i casi tracciati sono 5.088 su 37.148: dall’87% dichiarato si arriva a un misero 14%. Incrociando i dati delle regioni e quelli della protezione civile, solo 8 regioni su 20 supererebbero l’esame della cabina di regia.

Non tutte le regioni mostrano questi scostamenti. La Lombardia, per esempio, paga con la zona rossa la trasparenza dei suoi dati. Il direttore sanitario dell’Ats di Milano Vittorio Demicheli ha ammesso pubblicamente «non riusciamo a tracciare tutti i contagi». E infatti la percentuale di tracciamento dichiarata è solo del 61%, terzultima regione in Italia. Però è calcolata sul totale dei casi di ottobre, e non su un sottoinsieme come avviene per molte altre regioni. Se tutte le regioni adottassero lo stesso conteggio, la Lombardia sarebbe in media nazionale. Non è necessario truccare i dati per abbellirli. Prendiamo il caso del Lazio: la regione dichiara che i 505 operatori dei servizi di prevenzione hanno tracciato il 97,6% dei casi positivi a ottobre. Si tratta di 18 mila casi tracciati, mentre quelli registrati dalla Protezione Civile nello stesso periodo sono stati circa 32 mila.

Quindi la percentuale di tracciamento più realisticamente si aggira intorno al 60%. La differenza è dovuta alla definizione stessa di “caso”. Secondo il decreto ministeriale sulle malattie infettive risalente al 1990, un caso è registrato dalle autorità sanitarie solo dopo la notifica ufficiale dell’esito del test, cosa che per il coronavirus avviene contestualmente al tracciamento. Spesso però i risultati dei tamponi arrivano via Internet o per telefono e senza notifiche ufficiali sfuggono alle statistiche ufficiali (ma non ai numeri alla Protezione Civile). È dunque il sistema di monitoraggio sdoppiato tra autorità sanitarie regionali e governo, unitamente alla carenza di personale per far fronte al diluvio di nuovi casi, a falsare i dati in mano agli scienziati. E con essi diventano opache anche le decisioni politiche che ricadono su tutti.