Venerdì 18 giugno gli iraniani andranno alle urne per eleggere il prossimo presidente della Repubblica islamica. La buona novella è che non si tratterà di un membro dei Pasdaran, le Guardie rivoluzionarie.

La cattiva notizia è che, dietro le quinte, i giochi sono già stati fatti, il voto avrà un impatto negativo sulla ripresa dell’accordo nucleare e quindi dell’economia. I dodici teologi e giuristi che compongono il Consiglio dei Guardiani hanno infatti approvato sette candidati: saranno soltanto loro a potersi presentare alle presidenziali del 18 giugno.

Se nel 2013 il moderato Hasan Rohani era riuscito ad aggiudicarsi la poltrona di presidente, questa volta il fronte ultraconservatore non si prende alcun rischio: ha escluso quasi tutti i riformatori e pure moderati come Eshaq Jahangiri, il primo vicepresidente di Rohani.

Sono fuori gioco anche esponenti del fronte conservatore come Ali Larijani, che per dodici anni è stato a capo del parlamento. E pure l’ex presidente populista Mahmoud Ahmadinejad: come nel 2017, non si vuole correre il rischio che venga rieletto dagli iraniani, a cui continua a piacere anche perché non porta il turbante del clero. Il ministro degli Esteri Javad Zarif non si è nemmeno preso la briga di sottoporre la propria candidatura.

Viene così spianata la strada alla vittoria dell’ultraconservatore Ebrahim Raisi, un membro del clero sciita con il turbante nero come l’Ayatollah Khamenei e come gli altri discendenti del profeta Maometto. Raisi è ben noto agli iraniani per aver mandato al patibolo – nel 1988 – migliaia di oppositori e, per questo, è stato preso di mira dalle sanzioni statunitensi. Molto vicino al Leader Supremo, attualmente è a capo della magistratura.

Si era già candidato alla presidenza nel 2017, ma in campagna elettorale si era dilungato sulle ulteriori restrizioni che avrebbe imposto: i giovani e le donne gli avevano preferito il moderato Rohani. Dopo due mandati consecutivi, il prossimo agosto quest’ultimo dovrà cedere il testimone. 59,3 milioni gli iraniani che avranno diritto al voto, 40 milioni in più rispetto a quarant’anni fa.

La rosa di candidati è limitata. Raisi è il più intransigente. Oltre a lui, a concorrere sono una serie di personaggi che si erano già presentati in passato, si erano ritirati oppure avevano preso solo una manciata di voti: non rappresentano quindi una minaccia per Raisi. Si tratta di Saeed Jalili (già capo del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale, ora è il negoziatore sul nucleare), Mohsen Rezaei (già capo delle Guardie rivoluzionarie, è il segretario del Consiglio dell’Interesse Nazionale), i deputati Alireza Zakani e Amirhossein Qazizadeh-Hashemi. Gli altri due candidati sono il governatore della Banca Centrale Abdolnaser Hemmati, un moderato, e il riformista Mohsen Mehralizadeh (già vicepresidente ma di basso profilo).

Lo scenario, dicevamo, non è dei migliori: se vincerà Raisi, non ci sarà modo di tornare all’accordo nucleare. Se le autorità della Repubblica islamica continueranno ad arricchire l’uranio, l’amministrazione Biden lascerà in essere le sanzioni economiche e finanziarie e l’economia non si riprenderà. Gli iraniani ne sono consapevoli e l’unico modo per far sentire la loro voce sarà boicottare queste elezioni: se l’affluenza è in genere attorno al 67 percento, venerdì 18 giugno ci si aspetta una percentuale ben inferiore. In ogni caso, il presidente della Repubblica islamica è a capo del governo ma tutte le decisioni importanti, in politica estera e sicurezza nazionale, spettano al Leader Supremo.