La guerra del Kosovo di venti anni fa segnò uno spartiacque anche per le organizzazioni non governative (Ong) e per l’intervento umanitario reale nelle tante aree di conflitto.

Quella guerra fu definita «umanitaria» e la missione Arcobaleno fu pensata nelle stesse ore in cui veniva decisa l’adesione dell’Italia ai bombardamenti della Nato.

I raid iniziarono il 24 marzo, Arcobaleno fu annunciata il 27 marzo. L’intervento umanitario fu dunque organico alla guerra e molte Ong consapevoli o meno- si misero al servizio di questa visione.

I paesi dell’Alleanza atlantica utilizzarono «l’argomento» umanitario come corredo indispensabile per costruire consenso intorno ad operazioni militari contrarie al diritto internazionale. Così diverse Ong accettarono soldi da un governo che stava facendo la guerra: il tutto per far fronte ad un’emergenza in larga parte causata dallo stesso governo da cui si ottenevano lauti finanziamenti. Si potevano vedere soldati della Nato aiutare le Ong a montare le tende dei campi per i profughi (che scappavano dai bombardamenti dell’Alleanza Atlantica oltre che dalle milizie serbe) o rifornire gli stessi campi di beni di prima necessità già in dotazione agli eserciti.

Molte organizzazioni abdicarono di fatto alla propria autonomia ed indipendenza. Il tutto in cambio di finanziamenti per progetti, in alcuni casi perfettamente inutili, ma funzionali alle proprie strutture e a pagare lo staff.

Naturalmente non per tutti fu così, ma per tanti sì. Il 3 aprile del 1999 gli organismi di solidarietà internazionale che non avevano accettato la missione Arcobaleno (tra cui Ics, Arci, Legambiente, Un Ponte per, Cric, ecc.) organizzarono una manifestazione a Roma contro la guerra con 100mila persone.

Alla fine della guerra in Kosovo, erano presenti sul campo oltre 400 Ong con propri progetti in un territorio grande quasi quanto l’Abruzzo. Il tutto all’insegna di un intervento umanitario invasivo, dall’alto e assistenziale. E protetto dai militari della forza internazionale, gli stessi militari che non proteggevano le nuove minoranze del Kosovo colpite dalla contro-pulizia etnica.

Solo poche Ong (come Medici senza frontiere e Ics) protestarono. Dalla guerra in Kosovo si è sviluppato un approccio militar-umanitario che ha avuto il suo coronamento in Afghanistan e in Iraq con l’istituzione nella Nato del Cimic (la Civilian Military Cooperation), di una strategia militare, cioè, che ha inglobato la dimensione umanitaria come strumento pratico e ideologico di consenso mediatico e di affiancamento sul campo. Fino a qualche anno fa le Ong sono state completamente adagiate a questo approccio; dai fallimenti dell’Iraq in poi alcune di queste sono rinsavite e hanno riaffermato la necessaria indipendenza (tra l’altro sancita formalmente dai principali codici di condotta internazionale delle agenzie umanitarie) della sfera umanitaria da quella militare.

Ma è certo che la guerra in Kosovo ha messo in luce tutta la debolezza di un’azione umanitaria – in particolare di quella italiana- senza identità politica e culturale, completamente subalterna e cooptata nelle istituzioni: una cooperazione e delle organizzazioni paragovernative che con la mano sinistra scuotevano debolmente la bandiera arcobaleno e con quell’altra cercavano di prendere il più possibile dalla cassa Arcobaleno .

È stato, dal punto di vista dell’autonomia e dell’identità culturale, il punto più basso dell’intervento umanitario italiano.

Quel periodo però arrivò dopo un decennio straordinario in ex Jugoslavia (in Bosnia Erzegovina e in Serbia) di pacifismo concreto (lo definì Alex Langer), molto poco ideologico e fatto di diplomazia dal basso, accoglienza dei profughi, migliaia di volontari, centinaia di comitati locali a fianco dei rifugiati, delle Donne in nero, dei centri anti-guerra, delle vittime di ogni etnia. Un’esperienza che fu oscurata dal circo militare-umanitario della missione Arcobaleno, ma che sottotraccia continua ancora oggi.