La memoria personale è quella di una ragazzina il giorno del suo compleanno, davanti alla torta con le candeline. La luce si spegne e fin qui è tutto nella norma, se non fosse che l’azione non è voluta ma subita. La corrente è andata via e le sirene dell’allarme antiaereo attaccano il loro grido ossessivo. Intorno a lei gli adulti hanno i volti tesi, consapevoli della gravità della situazione, invece per i più giovani non è che un momento di festa. Le candeline vanno spente, si continua a mangiare, ridere e ballare. Su questa dicotomia tra conflitto e quotidianità è incentrata la poetica di Gohar Dashti (Ahwaz 1980, vive e lavora a Teheran), particolarmente evidente in uno dei suoi progetti più noti, Today’s Life and War (2008).

«Era come vivere nel paradosso», ricorda la fotografa iraniana a proposito della sua infanzia e adolescenza, trascorse nella sua città natale al confine con l’Iraq durante gli anni della guerra Iran-Iraq. Questa serie, insieme ad una selezione di Slow Decay (2010) e Volcano (2012) fa parte della sua prima personale italiana, Inside Out da Officine dell’Immagine a Milano (la mostra curata da Silvia Cirelli è aperta fino al 24 gennaio 2014).

Non si ritiene un’attivista Gohar Dashti, solo un’artista. «Il mio lavoro, pur affrontando questioni sociali e politiche, non è direttamente coinvolto con le questioni del governo. Si tratta solo delle mie opinioni in cui metto a fuoco quello che per me è in generale la violenza, i ricordi della guerra, il sentimento di felicità in Iran.»

Il suo approccio al soggetto è sempre simbolico e anche quando il messaggio sembra più esplicito, sono le emozioni a trovare le diverse chiavi d’accesso.

Dopo gli studi di grafica, durante i quali comincia ad entrare in confidenza con la fotografia, Dashti sostiene il difficile esame di ammissione all’Università pubblica di Teheran. È incerta se studiare cinema o fotografia, ma alla fine prevale l’interesse per l’immagine fissa. La sua metodologia di lavoro rimane, tuttavia, strettamente connessa con quella cinematografica. Intanto per lei è fondamentale il lavoro di squadra (anche a Milano l’hanno seguita i suoi due assistenti, il fratello Raoof e Hamed Noori). L’idea in tutte le sue fasi evolutive, dal passaggio agli schizzi e ai disegni preparatori alla scelta della location e dei modelli, è sempre affrontata e discussa con il team fino al momento dello scatto.

L’insieme di persone è anche un concetto che torna nel suo lavoro di fotografa – «L’idea stessa del gruppo racchiude in sé la potenzialità di un confronto, di un movimento di opinioni che vengono condivise e discusse», afferma – soprattutto negli ultimi due progetti Volcano e Iran, Untitled (2013), al di là dell’aspetto stilistico profondamente diverso.

Ci sono voluti parecchi mesi per realizzare Iran, Untitledpresentato per la prima volta proprio in occasione di Inside Out – di cui tre solo per lo shooting in un ambiente desertico nei dintorni di Mashhad, a quasi mille chilometri dalla capitale. I colori desaturati restituiscono in maniera realistica gruppi fitti di persone, fotografati a distanza, intenti a fare qualcosa (sposi che ballano su un tappeto, coppie sdraiate su un materasso, giovani che salgono e scendono da uno scivolo…), ma circondati dal nulla. In Volcano, invece, tutte le foto sono state scattate in studio, sotto le forti luci artificiali che annullano la profondità di campo. Il codice linguistico viene direttamente dalla fotografia pubblicitaria dove tutti sono belli, perfetti, sorridenti, felici. Allo stesso modo i personaggi, solitamente serissimi e immersi in un’atmosfera pesante, sono ritratti in momenti di ilarità, di spensieratezza innaturale (le studentesse durante la lezione di anatomia, le donne mentre puliscono la verdura e intanto sorseggiano il tè…). La finzione è esaltata dalla presenza di un qualcosa di ibrido che obbliga l’osservatore a porsi delle domande senza potersi dare risposte.

«Ho voluto mettere in discussione quella che è l’apparenza superficiale della vita di oggi in Iran, che spesso viene proposta come serena e allegra, ma questa è solo la visione più superficiale perché si tratta spesso di storie tristi strettamente connesse con la situazione politica e sociale. Quindi è un’allegria di cui non ci si può fidare. Infatti in tutte le foto compare una figura coperta, un elemento di disturbo che suggerisce che c’è qualcosa che non va.»