Il mattino del 12 maggio nove baracche del campo rom di via Germagnano, situato nella periferia nord di Torino, sono state abbattute. L’area, dove vivono tutt’ora 370 persone, è sotto sequestro e ordine di sgombero. La polizia municipale si era presentata al campo già tre settimane prima e aveva posto i sigilli a sei baracche, che in quel momento erano vuote perché le famiglie che vi risiedevano regolarmente da anni sono tornate in Romania spaventate dal diffondersi del coronavirus. Quattro invece erano abitate. Una era la dimora di Mirella, una signora di 60 anni che ogni mattina va al mercato molto presto per cercare del cibo, così come Giovanna, una giovane donna sua vicina.

Costantino quando è arrivata la polizia era già uscito in bici a cercare nei cassonetti del quartiere. «Ora dove devo andare a dormire? – si chiede – E mi hanno fatto anche una multa di 500 euro perché rovistavo nella spazzatura. Oltre la multa rischiamo denunce penali solo perché andiamo a cercare cibo». Per chi è ai margini e vive di economia informale di sussistenza queste due attività, chiedere la carità e cercare tra i rifiuti, sono il solo modo per potersi sfamare.

Foto di Jean Diaconescu

Eugen era l’unico presente quando sono arrivati degli agenti. Era ospite nella baracca di parenti bloccati in Romania, non risultando residente in quella costruzione è stato fatto uscire e, come gli altri, non ha altro posto dove andare.

Una sola abitazione si è salvata. «Sono stati tolti i sigilli alla baracca della signora Mirella, per le altre persone, che non sono usuali residenti del campo, non potevamo fare niente – dice Daniele Lieti, dirigente del Reparto informativo minoranze etniche della polizia municipale di Torino, che prosegue – La demolizione delle baracche disabitate andrà avanti. Non c’è nessuna relazione tra la pandemia da coronavirus e l’abbattimento».

Per «dare piena applicazione alle direttive europee per il superamento delle forme di ghettizzazione», come si legge nel documento alla base del Progetto speciale campi nomadi firmato da Regione, Comune, Prefettura e Diocesi, la demolizione dovrebbe essere preceduta dall’offerta di una alternativa abitativa, l’inserimento lavorativo degli adulti insieme alla tutela della salute e della continuità scolastica per i minori.

Foto di Jean Diaconescu

Gli interventi di inserimento hanno riguardato ad oggi solo le 8 famiglie, 72 persone, che vivevano nella parte legale del campo, denominata Germagnano 10, come afferma l’assessora e vicesindaca Sonia Schellino: «Tutte le persone del campo Germagnano 10 che è stato chiuso sono stati inclusi. E, in particolare, sono state e continueranno a essere tutelate tutte le persone fragili, dagli anziani ai bambini, ai disabili». Anche per i 36 minori «che con le loro famiglie hanno lasciato il campo di via Germagnano 10, gli istituti scolastici hanno garantito le stesse opportunità didattiche date agli altri studenti» dice Schellino.

Per gli altri 370, tra cui un centinaio di bambini, ci sarà tempo fino al 31 dicembre quando il Progetto si concluderà. «Dall’inizio della quarantena non ci è mai stato portato alcun aiuto dalle istituzioni – dice Tiberius, che vive nel campo da anni – né sanitario, né generi di prima necessità».

Durante la demolizione delle baracche i residenti del campo gridavano ai vigili «Abbiamo fame». L’unico aiuto concreto è arrivato dal Balon, lo storico mercato cittadino, «Uno dei responsabili ci ha portato frutta e verdura, ma senza poter andare a vendere gli oggetti trovati nella spazzatura e aggiustati moriremo di fame» dice Tiberius.

La vicesindaca spiega come gli aiuti siano stati portati «a tutti i cittadini e le famiglie che ne hanno fatto richiesta, in base alla disponibilità di alimenti, tenuto conto di chi ha avuto un peggioramento della situazione a causa dell’emergenza Covid e che non ha già altri sussidi o altre forme di sostentamento».

Mircea è scettico «Molte persone non sanno neanche di poter chiedere sostegno alle istituzioni, e nessuno glielo ha mai detto. Qui vediamo solo la polizia, mai personale del Comune o dei Servizi sociali». Molti lavoravano come imbianchini, muratori, traslocatori e svuota cantine, come Ismail, «Non abbiamo soldi per fare la spesa, per ora sopravviviamo grazie gli aiuti che ci portano alcuni amici italiani».

Vive in un camper con sua moglie e i quattro figli nella periferia nord, sei persone in uno spazio soffocante al cui interno col sole si superano i 40 gradi. Tra gli abitanti dei campi rom e dei camper si è diffusa la paura che, una volta finita la quarantena, saranno additati come untori e diventeranno bersagli facili se continueranno a vivere nelle condizioni attuali. Ma quello che preoccupa maggiormente Ismail è il cibo, «Se non potrò tornare a lavorare al più presto i bambini e le bambine inizieranno davvero a soffrire la fame».