Una pagina scritta è bianca e nera. Ma arriva, a volte, uno scrittore che vive di colori: «C’era un vecchio con un cappellone nero sbertucciato, gli occhi color acqua morta imploranti sulla faccia cadaverica, pendente il labbro sotto i baffetti scoloriti, e un altro con un pizzetto candido, la faccia piccola, rosea, due capocchie di spilli per occhi e un berrettino di panno giallo».

l doppio ritratto è firmato da Filippo De Pisis, in un libro pieno di lunatiche meraviglie, Le memorie del Marchesino pittore, che raccoglie divagazioni e invenzioni sullo sfondo della Parigi anni venti. De Pisis guarda le cose con attenzione non sentimentale, ma tecnica. Spiegava Primo Levi: «Mi ritrovo più ricco di altri colleghi scrittori perché per me termini come chiaro, scuro, azzurro, hanno una gamma di significati più estesa e più concreta. Per me l’azzurro non è soltanto quello del cielo, ho cinque o sei azzurri a disposizione».

ome il laboratorio chimico, anche la tavolozza del pittore amplifica il linguaggio, moltiplica la disponibilità di materie prime. I colori non sono ornamento ma strumento. Ecco allora sfoghi lessicali con accostamenti preziosi e precisi (argento verdino, azzurro oro), e l’attenzione a toni e a sfumature ricreati con lo strumento stilistico della suffissazione, frequentissimo il diminutivo (giallini, verdini).

’apparenza fisica per De Pisis non è alternativa, ma esaltazione della fantasia intellettuale. Dandy candido e capriccioso, arbiter elegantiarum capace di accordare sfondi e dettagli, il marchesino pittore fa teatro, prima di tutto, di sé stesso. Sfilano pagine piene di vestiti, sempre accesi di colore: la palandrana di velluto amaranto; sulla spilla da cravatta, lo zaffiro di un dolce colore marino.

, attraverso il colore, uomini e cose si accomunano, in tableaux vivants sorpresi nell’istante di una rivelazione: «La facciata della chiesa par più bianca, in fondo alla stradetta groppe azzurre vellutate e frassini verde fondo fermi, finestrette con aria sconsolata».