Anthony Kwame Appiah, filosofo e teorico culturale, romanziere e saggista, è tra i più importanti intellettuali degli Stati Uniti. Docente di filosofia e legge presso la New York University, ha ricevuto numerosi premi e importanti riconoscimenti per i suoi lavori. Con una produzione scientifica sterminata e di grande valore, è intervenuto su numerosissimi temi, tra cui la costruzione dell’identità individuale in relazione ai contesti sociali, gli studi culturali, la storia degli intellettuali africani, le vicende razziste negli Stati Uniti, il cosmopolitismo, la letteratura africana e afroamericana.

Nato a Londra, è cresciuto in Ghana. Il padre, Joseph Emmanuel Appiah, fu avvocato, politico e presidente del Ghana; la madre, Peggy Appiah, di origine inglese, si dedicò alla scrittura di romanzi e alla letteratura per bambini. La loro unione fu ampiamente commentata dai tabloid internazionali essendo tra i primi matrimoni interrazziali nel Regno Unito. Il prozio, nel 1970, fu proclamato nuovo re Ashanti. La nonna, invece, divenne vedova del diplomatico Sir Stafford Cripps, uno degli uomini inglesi a cui fu dato l’incarico di negoziare l’indipendenza dell’India. Laureatosi alla Kwame Nkrumah University of Science and Technology di Kumasi, Anthony Kwame Appiah continuò gli studi di filosofia a Cambridge, dove insegnò, prima di avere prestigiosi incarichi accademici a Yale, Cornell, Duke, Harvard.

L’incontro con lui, avvenuto a Berkeley, è durato l’intero pomeriggio precedente la sua lecture presso l’Auditorium Chevron dell’Università della California. Sono stati numerosissimi i temi del nostro dialogo: la working class e l’idea di onore, la razializzazione e la genderizzazione del mercato del lavoro – partendo dal suo testo Honour Code (2011); Londra, il mondo atlantico e la circolazione delle idee, delle immagini degli altri continenti, degli stereotipi; la linea del colore in America, dalle piantagioni alle metropoli, dai ghetti a Ferguson; l’Islam, la religione e l’Europa, gli imperi coloniali, la memoria e l’oblio del passato; l’idea di uguaglianza.

Durante l’intervista è emerso il tema della «razza» a partire dai nuovi e vecchi razzismi in Europa e in Italia, a partire, per il nostro paese, da un rinnovato dibattito scientifico che coinvolge diversi gruppi di ricerca (Intergrace, Immaginari Postcoloniali, Postcolonialitalia, Seminari Sissco Memorie Coloniali, ecc.), avviato con la pubblicazione di due importantissimi volumi: Bianco e nero. Storia dell’identità razziale degli italiani (Le Monnier) di Gaia Giuliani e Cristina Lombardi-Diop e Parlare di razza. La lingua del colore tra Italia e Stati Uniti a cura di Tatiana Petorvich Njegosh e Anna Scacchi (ombre corte). Inoltre, a partire da ieri e fino al 20 febbraio, gran parte degli studiosi italiani interessati a questi temi prenderà parte al convegno «Archivi del Futuro» presso l’Università di Padova, organizzato da Postcolonialitalia, con importanti relazioni di Boaventura de Sousa Santos, Sandro Mezzadra, Sandra Ponzanesi.

Nel tuo volume «My Father’s House: Africa in the Philosophy of Culture», affronti le tante e diverse immagini che sono circolate nella sfera pubblica americana tra la fine degli anni Ottanta e il 1993: dal pestaggio del taxista Rodney King da parte della polizia, alla rivolta di Los Angels del 1992, dalle barche dei profughi haitiani agli scontri tra i clan Hasidim e Afroamericani. Parli di immagini «razzializzate». Vorrei a questo proposito chiederti cosa intendi per «razza». È una costruzione culturale, così come hanno sostenuto molti intellettuali, da W.E.B. Du Bois a Stuart Hall?

Sì, è una costruzione culturale. Ma c’è una questione importante che penso sia fraintesa. Dire che è una costruzione culturale non è la stessa cosa di dire che non è reale; equivale, invece, a chiarire come è reale, in che modo diventa reale. Ciò ha a che fare con l’integrità intellettuale propriamente intesa, perché se si comprende che un costrutto culturale è il prodotto di processi sociali, allo stesso modo ci si può rendere conto che i processi sociali sono o devono essere coinvolti nel suo ripensamento. Se costruisci qualcosa socialmente lo puoi ricostruire socialmente. Se è biologicamente dato, devi modificare la biologia se vuoi apportare delle modifiche. Quindi potremmo dire che è necessario capire come questi meccanismi funzionano al fine di ragionare se li vogliamo cambiarle – definendo cosa vogliamo cambiare – e poi come dovremmo cambiarli.

L’idea che la «razza» sia socialmente costruita non è solo vera, ma dà la possibilità alle persone di provare a pensare quale danno il razzismo abbia provocato nel mondo; consente cioè di riflettere sul fatto che abbiamo modi di ragionare bloccati, e, parimenti, che possiamo decidere se vogliamo una storia che si sviluppi a partire da certi presupposti o meno.

Non vi è dubbio che il modo di intendere la «razza» divenne centrale nel mondo atlantico nel 18° e nel 19° secolo. Va chiarito che da Medievo al Seicento sono state elaborate concezioni diverse di «razza» da quelle che abbiamo oggi. Sono secoli dove le distinzioni chiave non si trovavano sulla linea del colore, ma nella differenza tra Cristiani, Musulmani e tutti gli altri, i pagani. Questo è un punto centrale. Ed è anche una delle maggiori ragioni per cui i tre re magi rappresentano i tre regni: quello asiatico, quella africano e quello europeo. Uno dei motivi per cui questo modello si è sviluppato è perché nel dodicesimo, tredicesimo e quattordicesimo secolo il modo di esprimere l’idea di cristianità non riguardava il colore della pelle: il Cristianesimo era una religione universale e quindi ogni persona, di qualsiasi colore, poteva diventare un servo di Cristo.

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L’idea che la «razza» sia un costrutto sociale ci permette di focalizzare più questioni. Una è che le forme di razzializzazione variano in ogni società e si sviluppano in modi particolari: conseguentemente, nel mondo atlantico non vi è un significato universale di nerezza. Se vai in Brasile e chiedi se una persona è «negro» loro comprenderanno che tu intendi nero. Io non sono «negro», non sono abbastanza scuro, in Brasile. E come il Brasile ci sono altri mondi, ci sono centinaia di mondi, con differenti modi di intendere le tonalità di colore. In Brasile, due fratelli potrebbero essere uno «negro» e l’altro «barbo», tra le tante possibilità. Negli Stati Uniti la via su cui si è sviluppata la «razza» è profondamente legata alla famiglia: non possiamo avere un fratello di un colore e uno di un altro. Si può avere qualcuno che è culturalmente nero e con una pelle molto chiara – ma rimane ancora nero, comunque.

Similarmente, sono cresciuto nell’Africa Occidentale, in Ghana, in una comunità in cui ero quello con la pelle più bianca. Questo perché mia madre era inglese. Ero una sorta di brown, il mio colore aveva un nome. E mentre camminavo per il villaggio molte persone vedendo il colore della mia pelle non mi chiamavano per nome, ma dicevano «fermo, fermo, non è una questione di amicizia, non è una questione di non amicizia, è un fatto». Quindi la «razza» si configura in modi diversi in luoghi diversi, e una delle sfide del movimento panafricano, il movimento di solidarietà con la diaspora atlantica, è stata quella di riconoscere che vi erano molti modi di essere associati concettualmente con l’Africa, che ciò variava per ogni luogo in modi differenti – penso in particolare in Africa e fuori dall’Africa – ma vi erano differenze anche nei Caraibi e in Nord America, tra i nativi d’America e gli indigeni europei. Anche se ciò non è messo adeguatamente a fuoco dalla storia.

Invece di decidere chi ha ragione, credo sia più utile scegliere quale sia l’opzione più utile. Domandarsi chi ha ragione non è utile! Che senso ha chiedersi se W.E.B. Du Bois – intellettuale americano, del mio stesso colore – era realmente nero? Che tipo di domanda è questa? È utile pensare che sia una persona nera in un certo contesto? È inutile? – queste sono buone domande! E legato a ciò vi è anche la ridicola discussione sul colore del presidente degli Stati Uniti. Sua madre è bianca, e a me sembra davvero una questione stupida stabilire se sia o meno realmente nero. Egli è quello che è. In alcuni contesti sociali, va ricordato, una persona camminando per la strada, con l’apparenza che ha, viene riconosciuta come nera da un poliziotto. I suoi genitori non possono fare nulla contro questo.

La «razza» è quindi una costruzione sociale. Come lo è il genere, certo, ma in modo differente e con processi differenti. Ed è illuminante ricordare questo perché la «razza» è costruita in modo differenti in luoghi differenti, non è universalmente un prodotto binario, basti pensare all’India, al Ghana e a tanti altri luoghi del pianeta.

Storia, memoria, oblio: in che prospettiva si può parlare di memorie del colonialismo?

Penso che tutte le società abbiano dei grandi problemi a ricordare il loro passato. Vorrei portare l’attenzione sul saggio di Ernest Renan Che cosa è una nazione?, redatto nel XIX secolo, nel quale l’importante storico spiega, dalla sua prospettiva di fervente nazionalista francese, come la storia sia nemica della nazione. Perché le nazioni – come spiega Renan – sono costituite da cosa si dimentica così come da cosa si ricorda. A volte si è cioè portati a dimenticare al fine di rimanere uniti. Penso non sia mai una buona cosa, perché alla fine ci si trova in condizioni che possono essere spiegate con il termine freudiano «represso», ossia che quanto volutamente dimenticato ritorna, usando una metafora. Prendiamo ad esempio l’Inghilterra, l’Impero Britannico. Sono nato come subject of the British Queen, mio padre è nato subject del re Britannico, in colonia, e mia madre è nata come British subject in Inghilterra. Ogni status di subject ha aspetti differenti. Ovviamente mio padre era un colonial subject con relazioni diverse con lo stato, con la società, con l’impero rispetto a mia madre. Nel momento in cui mi sono trovato a crescere nel Ghana indipendente – e preciso che noi siamo stati per lungo tempo subjects, siamo stati per parecchio tempo British subjects – ricordavamo il passato coloniale in un modo diverso da quello che ci veniva raccontato. Non penso che in Ghana si abbia una grande infelice ricordo del periodo coloniale perché non vi è un molto risentimento contro l’Impero Britannico. Ma non ci ricordiamo questo periodo di costruzione di strade, istituzioni e ospedali come se lo ricordano gli inglesi. Quindi possiamo dire che ricordiamo in modo diverso a seconda degli status.