«La vicenda è chiusa, ora occupiamoci di cose serie». Matteo Renzi arriva con il consueto ritardo alla riunione dei suoi parlamentari convocata nel pomeriggio al Nazareno. Ma a quell’ora, sono le tre e mezza del pomeriggio, ha già cambiato idea rispetto alla sera prima: nessuna drammatizzazione sulla mancata elezione del presidente della commissione affari costituzionali al senato, pieno appoggio a Gentiloni. Certo, spiega, «l’episodio di ieri è grave e antipatico. Il nostro linguaggio non può tornare alla prima Repubblica. Noi la parola crisi di governo non la vogliamo utilizzare, come fanno Ncd o Mdp». E comunque: il capo dello Stato non deve essere trascinato nelle dinamiche parlamentari. Quanto alla legge elettorale «il fronte del No al referendum, al Mattarellum, all’Italicum, quello di chi ha votato il centrista Torrisi alla presidenza della commissione e ora è maggioranza, ci faccia qualche proposta».

IN REALTÀ A FRENARE le intemperanze dei turborenziani fra mercoledì sera e giovedì mattina è stato un ampio fronte, fuori ma anche dentro il Pd. Dopo la sgrammaticata richiesta del Pd di un confronto con il Colle, richiesta che ieri non aveva più padri nel Pd, il Colle ha fatto sapere che – com’era del resto ovvio – intende restare fuori dalle vicende parlamentari, e comunque di non aver ricevuto nessuna richiesta ufficiale. Intanto si erano mosse le diplomazie anche dal fronte che sostiene Renzi: dai ministri Franceschini a Martina a Delrio, erano partiti messaggi di grande perplessità sulla richiesta di chiarimento a Palazzo Chigi da parte di Guerini e Orfini. Per non parlare della mossa di coinvolgere il Colle. DALL’AREA FRANCESCHINIANA il messaggio è chiaro: «Non ci si scandalizza per il fatto che Renzi possa voler accelerare, fa parte della politica, anche se lo riteniamo un errore. Ma tirare Mattarella in mezzo a questa cosa è stato davvero maldestro, una mossa da dilettanti. Tanto più che proprio ieri il senato, mentre succedeva quel casino in commissione, votava la fiducia sul decreto terremoto». E ancora: «Non si è mai visto che si minaccia una crisi per un presidente di commissione, peraltro comunque della maggioranza. E meno che mai si può chiamare in causa Mattarella per questo».

IL PRESIDENTE GENTILONI, dopo aver chiesto e ottenuto un raffreddamento del clima, ieri poi ha lanciato un messaggio aperto proprio da Firenze: «In questo momento delicato per il nostro Paese e per il mondo la richiesta che viene alle istituzioni dai cittadini è di essere rassicuranti. Da parte dei cittadini c’è bisogno di sapere che c’è un sistema che funziona e che rassicura». Sottotesto: basta fibrillazioni, basta strappi.

Del resto soffiare sul fuoco della instabilità della maggioranza puntando al voto a giugno è evidentemente una chimera, una mossa velleitaria. La finestra del voto di ottobre è politicamente impraticabile: per evitare di bloccare la sessione di bilancio, che è poi la stessa ragione formale per la quale lo scorso anno il referendum (che infatti era «di ottobre») è slittato a dicembre. Quanto al voto a giugno, è un’altra finestra sbarrata: non ci sono i tempi tecnici. E, soprattutto, non c’è una legge elettorale utilizzabile.

CONDIZIONE CHE verosimilmente permarrà a lungo. Per la riforma ora il Pd rilancia la palla al campo della «accozzaglia del No» (la citazione è dal Renzi ante referendum e che ora in Transatlantico è tornata in voga). In effetti c’è un obiettivo che Renzi ha centrato con il caso Torrisi, forse quello vero: avvisare gli avversari proprio sulla legge elettorale. Un renziano di rango la spiega così: «La Prima Repubblica si sta mobilitando per impantanarci. Ma anche noi sappiamo giocare: potremmo fare sponda con i grillini per togliere i capolista bloccati e mettere le preferenze. Poi voglio vedere Forza Italia e Mdp che cosa fanno». Con i suoi Renzi è tranchant: «Ora vediamo cosa sono capaci di fare». Lorenzo Guerini lo dice con il linguaggio della politica: «Il vulnus è grave. Noi abbiamo dimostrato senso di responsabilità, ora tocca agli altri. Il fronte del proporzionale vuole una legge proporzionale con soglie di sbarramento basse? Facciano una proposta».

Per ora le opposizioni si godono quella che giudicano una vittoria : «Sulle questioni istituzionali basta arroganza e autosufficienza. Il parlamento non è la cucina di Masterchef dove c’è chi risponde ’Sì chef’. È finita la stagione del capo che comanda», dice il demoprogressista Roberto Speranza.

MA «L’ACCOZZAGLIA», come noto dai tempi del referendum, un fronte politico non è. E il rischio reale è che tutto resti com’è, tranne pochi aggiustamenti: l’inserimento del voto di genere al senato, il reperimento di un sostituto al metodo del sorteggio dei capilista, l’aumento dei collegi del senato.

Che è tutto sommato quello che il Pd si augura, senza poterlo dire a voce troppo alta. Anzi potendo così scaricare tutte le responsabilità sulle spalle degli avversari in campagna elettorale.