Delle sei acqueforti tirate da Cinzia De Matteo nell’ottobre del 2019 che Aniello Scotto ha concepito per il Poemetto della luna ubriaca di Tommaso Di Francesco, la prima orna la copertina della impeccabile edizione accolta nella collana i ‘Sulphurèi’ de Il Laboratorio di Nola.

È una immagine del pencolare, del vacillare. Qualcosa pende, appesa o tenuta (piuttosto non ancora lasciata cadere: Si sta come/d’autunno/sugli alberi/le foglie: Ungaretti, nel bosco di Courton, nel luglio del 1918).

Come tra le dita tenere il lembo d’una stoffa leggera, un ritaglio, una toppa avanzata, e lasciarla oscillare al vento notturno che si è appena levato e ancora trascorre leggero e freddo. L’ondeggiare d’una ebbrezza immersa in una poca luce. La «luna ubriaca» vela il buio di un colore vinato tra l’amaranto e il viola e tutto intorno pervade, come guardare d’attorno attraverso il vetro del bicchiere mezzo pieno.

Col nero e i rilievi chiari che affiorano dalla carta intatta, è questo il contrassegno cromatico che unisce le sei acqueforti di Scotto per Di Francesco.

Nelle cinque che dan seguito a questa prima, si assiste ad una illustrazione della vicenda cantata nei versi delle dieci scansioni che articolano il Poemetto della luna ubriaca. Scotto la svolge affidandola alla figura del clown: «vedere un clown per me è come mangiare e bere» (It is meat and drink to me to see a clown, fa dire Shakespeare a Touchstone nel rivolgersi a Audrey in Come vi piace, V. I, 10).

La figura del clown, sulla quale Scotto ha avuto modo altre volte di soffermarsi nell’opera sua di pittore e incisore. Nei versi di Di Francesco, secondo i modi d’una ebbra condivisione, nello scambio di percezioni e di umori è annullata la distanza dalla luna che «non si nega a bere insieme/un sorso quotidiano dell’altrui calore».

Oscillare, vacillare, traballare: movimenti non controllati che l’ebrietà produce in precari equilibri, in inquietanti vibrazioni che offrono allo sguardo sghembe prospettive. Brividi che attraversano il corpo come certo accadde all’astronauta che fece «un tuffo lassù/da ronzinante usato da potenti».

Scotto delinea quel tuffo tra le sabbie della luna come la piroetta del clown nella segatura della pista del circo: «il clown – ha scritto Ramón Gómez de la Serna – è come una stampa o come un disegno sopra un cervo volante; è un disegno tracciato nell’aria».

Le acqueforti mostrano quell’astronauta rivestito dei panni del clown, un clown slogato negli arti, dai gesti sincopati, segnati dalla traccia di quel brivido freddo. La luce bianca della luna gli giunge ritagliata in forma di cuore. Un cuore dalla punta acuminata come una picca. Lo colpisce in fronte sotto la tesa del vetusto cilindro. Poi fattasi falce abbacinante lo brucia d’un calor bianco, lo fa di calce nelle ossa sgretolate.

Leggo nella pagina di Gómez de la Serna: «Il clown per essere più triste e più gaio, per produrre meglio il turbamento che è la sua specialità, si fa un poco la testa di morto e imita spesso i tratti profondi di un teschio. Riesce così a dar l’idea della morte e tuttavia a far ridere; dipinge di nero le sue orbite e la punta del naso che in tal maniera sparisce appiattendosi e sembra marcio e tumefatto».

Ed ecco, infine, apparirci il clown di nuovo in piedi nella sesta acquaforte, a fronte dei versi conclusivi del Poemetto: «Se gemi e tremi freddo il ritmo balla,/t’abbraccia mentre t’abbandona/orfano lassù, ubriaco quaggiù». Sulle sue larghe braghe flosce alla zuava tentano di brillare incerte stelle. Si è fatto più scuro l’amaranto, forse la posa che è restata al fondo dell’ultimo bicchiere. Stecchi le gambe ed ossa le braccia. Quel vento freddo è ora più forte e gli attraversa le scapole, mentre bocci novelli gli fioriscono gli omeri. Il cilindro scivola sulla testa dalle orbite vuote. Il teschio bianco come fior di farina.

«I clowns sono come panettieri infarinati che preparano il pane del riso per tutti». Ancora Gómez de la Serna che pubblicò nel 1917 il suo El circo, nei mesi dolorosi della guerra, giorni non meno tristi, allora, dei nostri ora.