Cabuwazi è un circo sociale itinerante, caotico e colorato (come conferma il suo acronimo «ChAotisch BUnten WAnderZIrkus), fra i più grandi d’Europa. È attivo a Berlino da oltre 20 anni, con 5 sedi in tre differenti distretti, e porta avanti diversi progetti pedagogici ed educativi rivolti ai giovani fra i 4 e i 19 anni di età, collaborando con le scuole della città, oltre che con i centri di accoglienza per i rifugiati e i campi profughi.

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Quella del circo sociale è una realtà pedagogica diffusa e consolidata nei paesi del Nord-Europa, in modo particolare in Germania, ma che lentamente sta trovando spazio anche in Italia. Una pratica educativa che pone al centro del suo discorso la socializzazione e l’inclusione e che, attraverso il lavoro sul corpo, favorisce l’elaborazione di esperienze non altrimenti veicolabili da altre forme classiche di educazione. «Non è solo una questione legata al gioco – racconta Ankica, una ragazza croata che lavora per il Cabuwazi – Il circo non è solo clown, giocolieri, mangiafuoco, trapezisti… Ha una funzione pedagogica molto importante, soprattutto nei bambini in età scolare. Se si osserva anche solo la disposizione delle aule e la normale vita quotidiana di una scuola, si capisce che si tratta di un modello educativo incentrato sull’apprendimento di regole che disciplinano il corpo, costringendo i bambini a stare seduti per ore sui banchi, per esempio. Inoltre l’educazione scolastica è mirata all’apprendimento individuale, alla produttività del singolo alunno, e può innescare antipatici meccanismi di competizione». Nel circo tutto questo non avviene, e anzi il raggiungimento del risultato finale non è dovuto dalla preparazione del singolo individuo, ma dipende da un accurato lavoro di gruppo, dalla partecipazione di tutti. «Ognuno può scegliere la propria attività a seconda delle capacità, così che chi non ha una grande coordinazione per fare il trapezista, ad esempio, può sviluppare le sue potenzialità in altri ambiti, scegliendo di fare il clown; e chi non ha interesse per le attività di tipo fisico può dedicarsi alla parte scenica, all’organizzazione della scenografia, ai costumi, al canto».

Per poter essere dei «circensi» non è necessario avere 10 in matematica, o avere dei bei voti in storia: chiunque può dedicarsi a questo tipo di pratica, perché è aperta a tutti. «Proprio in questo consiste la sua forza. È veramente una educazione alla libertà, perché non c’è nessuna selezione pregressa, nessun requisito minimo: l’unica selezione che avviene è quella spontanea dei bambini e dei giovani che sviluppano potenzialità facendo esperienza attraverso il loro corpo».

Naturalmente, l’attività circense non viene insegnata come una vera e propria disciplina scolastica: non ci sono delle ore di lezione. È un ambito extracurriculare, a cui partecipa un numero altissimo di bambini e di giovani, dai Kindergarten (le materne) fino alle scuole secondarie. Attraverso workshop che durano diverse settimane, gli alunni, sotto la guida dei tutor, apprendono i fondamenti della tecnica circense, e alla fine presentano un saggio. «Con molte scuole abbiamo progetti pluriennali – spiega ancora Ankica – così da poter avere una certa continuità con i bambini, sia dal punto di vista pedagogico che da quello dell’apprendimento tecnico».

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I laboratori sono composti da gruppi di 15-30 giovani, di età differenti e di diverso sesso. Rappresentano un’occasione di svago, dove l’elemento ludico è senza dubbio al centro di ogni attività. «Ma il circo è soprattutto disciplina – afferma Sara, ragazza italiana attiva con il Cabuwazi sia in progetti scolastici che con i rifugiati – Si tratta di insegnare ai bambini, soprattutto ai più piccoli, a rispettare le normali regole di convivenza, a non porli in competizione l’uno con l’altro, a rispettare i turni, a fare gruppo. Soprattutto nelle fasce di età più bassa, ci si focalizza su esercizi e attività che sono mirate a rafforzare il senso di fiducia nel prossimo, la coesione, la socializzazione». Solo una volta apprese queste basi fondamentali è poi possibile concentrarsi sull’aspetto «tecnico» dell’arte circense, che è comunque un fatto secondario.

Cabuwazi è attivo anche in progetti umanitari. È infatti promotore di un progetto («Cabuwazi Beyond Borders», http://www.cabuwazi.de/Projekte/cabuwazi-beyond-borders.php) riservato ai rifugiati, che porta i corsi di circo direttamente nei campi profughi e nelle strutture ricettive di emergenza. «In realtà come queste il discorso è diverso – continua Sara – Spesso si lavora con bambini che arrivano da situazioni di profondo disagio, che hanno affrontato viaggi in condizioni al limite dell’umano, che alcune volte hanno anche perso i propri cari durante quel viaggio». In situazioni come queste, il circo smette quasi di essere una disciplina artistica, e diventa a tutti gli effetti un collante sociale, una maniera di condividere uno spazio che non è più soltanto quello scenico ma è innanzitutto «sociale».

«Qui i bambini non vanno a scuola e il primo elemento su cui si deve lavorare è la disciplina: spesso tendono a sovrapporsi nello svolgimento delle attività, e a volte si fa fatica anche solo a far rispettare il proprio turno». In questo modo il circo non si sostituisce alla scuola, ma mostra la sua utilità in ambito educativo, la validità della sua proposta pedagogica. «Con un po’ di pazienza – confessa Sara- anche nelle condizioni più difficili si riescono a creare dei piccoli spettacoli con i bambini». E non importa la qualità tecnica o l’abilità dei partecipanti. Soprattutto fra i più esposti ai traumi di carattere psicologico, quel che conta è riuscire a creare dei legami: relazioni sociali, di rispetto reciproco e solidarietà, che sono gli elementi essenziali per poter affrontare un lungo percorso di resistenza.