La capitale del cinema, è tristemente noto, non è mai riuscita ad ospitare un vero festival di cinema. Invece ha gli Oscar, l’evento che ripropone ogni anno un concentrato di glamour patinato che ha tutta la spontaneità di un concorso di bellezza e lo spessore culturale di una fiera campionaria. Ora però, dopo decenni di attesa, è stato inaugurato il museo dedicato al cinema e sembra che l’Academy sia effettivamente riuscita a liberarsi del provincialismo celebrativo e dalla rappresentanza «industriale» che ha storicamente veicolato, e produrre un’istituzione culturale degna della forma artistica a cui è dedicata.
Il compito non facile dell’Academy Museum of Motion Pictures era quindi quello di distaccarsi dall’accademia e dall’industria hollywoodiana per offrire uno sguardo critico e «museale» sul cinema. Una missione tutt’altro che scontata dato che l’operazione in questo ambito si rischia facilmente di scadere nel collezionismo di artefatti di cui sono pieni i parchi a tema e i negozi di souvenir o di soccombere al fetish dell’oggettistica celebrity che compare regolarmente sui cataloghi delle aste commerciali (i vestiti di Debbie Reynolds o le moto di Steve McQueen).

L’INDAGINE ragionata sulla settima arte ad oggi intanto è rimasta in gran parte relegata alle facoltà universitarie o in élitiste torri d’avorio – vedi ad esempio la Margaret Herrick Library proprio dell’Academy, che custodisce tesori di 100 anni di storia accessibili unicamente a studiosi accreditati. Il lavoro «curatoriale» è al massimo rimasto appannaggio di cineclub o istituzioni cinefile come l’ottima American Cinematheque che per anni ha programmato film cult e piccoli oscuri gioielli nel Egyptian Theater di Hollywood Bl. Ma il recente acquisto della Cinematheque da parte di Netflix è stato l’ultimo sintomatico segnale il business di Hollywood rimanga una presenza ingombrante e non propizia alla cultura del cinema.
In questo contesto si inserisce ora l’Academy Museum che si prefigge di divulgare, divertire e ragionare sul cinema dall’imponente complesso all’angolo di Wilshire boulevard e Fairfax avenue frutto della riqualificazione dello splendido palazzo art deco della May Co. Sul retro dell’edificio preesistente, ma interamente riformulato al suo interno, Renzo Piano che ha curato il progetto, ha posto una imponente sfera di cemento e cristallo di 45 metri d’altezza, che riprende la sua biosfera galleggiante nel porto antico di Genova e quelle all’interno della California Academy of Sciences a San Francisco. In questa location dà l’impressione di una nave spaziale da poco attraccata e come tale fu inizialmente criticata – ora si direbbe che sia già stata annoverata fra i simboli cittadini e che il nomignolo subito affibbiato (Death Star come il pianeta militare artificiale di Guerre Stellari) sia diventato una specie di attestato di appartenenza hollywoodiana.
Antistante la sfera che ospita anche uno dei due cinema del museo (Il Geffen, da mille posti) la facciata del vecchio edificio è stata rimossa e sostituita da una parete in vetro all’interno del quale una serie di scale mobili distribuiscono verticalmente (e Beabourgianamente) il traffico dei visitatori sui sei piani di gallerie. Al loro interno sono sistemate le istallazioni, la maggior parte componenti un percorso su tre piani che i curatori hanno denominato Stories of Cinema.
Si parte dal piano terra dove una prima galleria accoglie i visitatori in una sorta di labirinto immersivo di spezzoni di grandi classici del cinema. Gli schermi ultrapiatti ad alta definizione disponibili oggi in molteplici dimensioni hanno aiutato a progettare questo ambiente (e sono componente fondamentale di tutti gli spazi espositivi del museo) in cui un superbo sound design agevola l’esperienza di immergersi sensorialmente in una serie di clip storiche: Bonnie & Clyde, il Laureato, l’ispettore Tibbs, Marcello di 8 e Mezzo, Eric Von Stroheim, Topolino stregone, Marlon Brando Padrino, Al Pacino Scarface, Jimmy Stewart Mr Smith, Peter O Toole Mr.Chips…un duello girato da Leone, un balletto di Americano a Parigi. Qui lo spettatore diventa parte del montaggio a seconda di come si sposta nello spazio fisico, con un effetto esilarante che conferma la nota affissa all’entrata: «I film ci hanno stregato come nessun altro medium (…) regalandoci finestre sul mondo, espandendo punti di vista e aprendo i nostri occhi a nuove meraviglie. Aiutandoci ad evadere e al contempo capire meglio noi stessi.»

IL RESTO della collezione, informa il programma, vuole raccontare «la storia, le origini, le tematiche e le polemiche che attraversano il cinema e le storie variate e complesse dei cineasti internazionali che lo producono». Dentro c’è posto per gli Oscar, ovviamente, e anche per una «red carpet experience» che, con biglietto supplementare, permette di poter camminare sul tappeto rosso fra i flash simulati dei paparazzi. È l’unica concessione alla concezione da parco giochi in un museo che si sforza semmai di essere inclusivo di sguardi «minoritari», non solo con allestimenti dedicati a MeToo e Black lives matter, ma anche a Real Wowen Have Curves, l’indie di Patricia Cardoso considerato pietra miliare del cinema Chicano. C’è una sezione dedicata a Thelma Shoonmaker e i suoi montaggi per i film di Scorsese e a Oscar Michaux, dimenticato pioniere del cinema afro americano di inizio ventesimo secolo. Uno sforzo evidente di correttezza politica ma anche una risposta concreta alle critiche di elitismo al centro delle quali l’Academy si è trovata negli ultimi anni.
Il percorso, specifica sempre il programma, è destinato a cambiare di continuo a seconda dei mutevoli flussi del cinema stesso, e così, presumibilmente, gli autori a cui viene dedicata speciale attenzione. Al momento una galleria è dedicata all’opera di Spike Lee e un’istallazione è stata personalmente curata da Pedro Almodovar per ricapitolare le tappe della propria carriera.

L’INTENTO è di fornire un quadro esauriente «dell’arte, della tecnica e del business del produrre ed esibire film.» In questa ambiziosa «storia universale» entrano la cronaca del suo avvento (Lumière e Méliés e una vera e propria wunderkammer di fantastici oggetti di mogano e ottone con ingranaggi vittoriani che sono i loro precursori (dal teatro indonesiano delle ombre alle lanterne magiche allo zoetrope).
Non mancano i reparti più divulgativi come il filmato che mostra la costruzione del suono di una pellicola (in questo caso una scena di Indiana Jones) attraverso le varie fasi di registrazione: presa diretta, doppiaggi, rumoristi, effetti e mix finale. C’è una stanza quasi totalmente buia in cui immergersi in una compilation di brani composti dall’islandese Hildur Guðnadóttir per varie colonne sonore e la galleria dedicata a costumisti e truccatori con la valigetta del trucco originale usata da Harold Lloyd. Ogni corporazione dell’industria è rappresentata e ogni contributo audiovisivo è della qualità che è legittimo aspettarsi in un museo gestito dai migliori rappresentanti delle rispettive professioni.
All’interno di questo scrigno ci sarà chi preferisce la galleria dei costumi o quella dedicata alla fantascienza ed alle sue creature (coi modelli originali di ET, Terminator, Alien e la creatura di Forma dell’acqua) o chi, come il sottoscritto, trova emozionanti le sale dedicate agli sceneggiatori che hanno buttato giù su vecchie Smith Corona le battute che ti restano in testa da decenni e dove si possono ammirare, annotate a penna e matita, indicazioni e ripensamenti scarabocchiati ai margini di copioni come quello di Fiamma del peccato di Billy Wilder, Chinatown firmato Robert Towne e Quei bravi ragazzi adattato da Nicolas Pileggi dal suo stesso romanzo.

NOTORIAMENTE allergica ai monumenti ed alle istituzioni pubbliche, Los Angeles ne ha infine una degna dell’arte per cui è nota in tutto il mondo. Lo spazio più intrinsecamente cinematico di tutto il complesso è la terrazza che sovrasta la sfera e a cui il pubblico accede tramite una apertura rettangolare che incornicia come uno schermo cinematografico le antistanti colline di Hollywood e celebre scritta. L’uso del paesaggio e del contesto sarà pure scontato ma ci voleva l’occhio di Piano per azzeccarlo così perfettamente.
La sensazione complessiva è di un esperienza gratificante per chiunque ami il cinema, accessibile al pubblico generalista ma dove anche un addetto ai lavori può imparare delle cose o fare collegamenti insospettati. Un centro di gravità culturale che mancava nella città di Disneyland e Hollywood Boulevard. Sia Los Angeles che il cinema ne escono arricchite.
non mandare in stampante, non mandare in stampante!!!!!!!!