Jean-Claude Rousseau rimane ancora oggi una figura unica, cineasta tra i più segreti e complessi, tra gli autori decisivi per portare il cinema verso una sua completa ed autentica modernità. Nelle due gemme minimali presentate Fuori Concorso a Locarno conferma il suo intimismo biografico, donandoci una doppia visione sublime e delicatissima; due piccolissimi film girati come al solito in solitudine, apparentemente senza direzione prestabilita, ma attraversati da una flagranza vitale abbagliante. Ad essere indagato è sempre il rapporto tra spazio, individuo e spettatore, rifiutando ancora una volta l’idea della narrazione per quella del flusso, ove la rappresentazione rimane strettamente legata ad ogni singolo frammento trovato all’interno della realtà, senza il bisogno di essere cercato.

Dopo aver abbandonato la pellicola per il digitale con lo splendido Festival (tra il 2000 e il 2010 riunisce in un unico film 5 cortometraggi presentati in precedenza come film autonomi: «Lettre à Roberto», «La Nuit sans étoiles», «Fauxdépart», «301», «Mirage»), qui per la prima volta si cimenta con l’alta definizione e cambia il formato (dal 4:3 al 16:9). Ambientati in una Kyoto industriale e nebbiosa, i due corti i rappresentano fratture all’interno di una quotidianità distratta, due finestre possibili, legate essenzialmente all’esperienza del viaggio, una sosta, una pausa, un respiro durante lo spostamento. Arrière-saison è girato all’interno del Parco Imperiale, nel tardo autunno.

Le rosse foglie degli aceri oramai cadono, calpestate da coloro che si incontrano nei viali ombreggiati. Gli uccelli rincorrono gli abitanti come i bambini inseguono un pallone. La macchina fissa appare impercettibilezzo gli degnerà uno sguardo. Si loin, si proche invece pone lo sguardo nella casa dove Yasuhiro Ozu mise in scena alcune sequenze di Tokyo Monogatari. Da una parte la terrazza che veglia nel bosco la città in lontananza, dove passeggiano persone tra un autoscatto e un binocolo, disattenti alla camera che si trovano di fronte.

Dall’altra una minuscola sala di proiezione dove lo stesso regista assiste ai frammenti di Ozu, prima di rincasare in albergo e stendersi sul letto. Entrambi questi due ultimi lavori di Rousseau confermano l’esigenza di attraversare l’essenza originaria del cinema, giocando con l’ambiguità continua tra la veduta e la visione, ricercandone quella sottilissima sensualità dell’osservare. Due piccoli film che ci portano a pensare alla materia ed all’essenza di uno sguardo, in cui il viaggiatore ed artista solitario sparisce, si nega come la sua macchina da presa per poi ricomparire solo e pensieroso. L’autore francese nella sua esperienza in Giappone declina magistralmente in altri due atti il rapporto tra l’essere ed il mondo, tra il soggettivo e l’oggettivo. Nella sorpresa e nello stupore di chi si rende conto del supporto filmico traspare purissimo un cinema che si pone quasi come strumento di misura possibile della distanza, nell’irriducibile speranza di poterla colmare.

Nello spettatore rimane un senso di trasporto estremamente sensibile di ritratti mancanti che coinvolgono il senso di abitare questo pianeta come del poter stimolare l’occhio. Scorrono le stagioni nel segno della durata e con loro il nostro avvicinamento progressivo all’essenza dei luoghi e delle anime dove il tempo e lo spazio sono le coordinate dell’apparenza. Sembra quasi come un attesa progressiva che sfida continuamente l’abisso ed il rumore di fondo dell’oggi, e che questo cinema sa cogliere in modo decisamente straordinario.