Cosa hanno in comune alcuni dei capolavori del cinema contemporaneo come L’argent di Robert Bresson, À nos amours di Maurice Pialat, La ballata di Narayama di Imamura Shohei, Pauline alla spiaggia di Eric Rohmer, Dans la ville blanche di Alain Tanner, The Terence Davies Trilogy di Terence Davies? Tutti questi film condividono la «data di nascita»: il 1983. Nel settembre di quello stesso anno nasceva il Bergamo Film Meeting, uno dei festival di cinema italiani più longevi che ora compie 40 anni e per ricordare quell’«anno particolare» gli dedica una sezione intitolata «1983: l’anno del contatto» composta dai film citati e da altri titoli.

NEL CORSO del tempo, il festival, pur continuando nell’appassionata ricerca di opere e autori, ha «stretto» il suo campo di osservazione al cinema europeo. Una scelta rivendicata, quella di essere «diventato poi principalmente un festival del presente ‘europeo’, da anni riconosciuto, anche con un significativo supporto finanziario, dai programmi Media dell’Unione Europea», sottolinea il presidente Davide Ferrario. Dopo due anni di assenza dovuti alla pandemia, Bergamo Film Meeting è tornato in sala chiamando a raccolta cinefili e ospiti, ri-coinvolgendo la città orobica in spazi di fruizione storici e nuovi per una programmazione ricca e articolata tra concorsi (uno di finzione, uno di documentari), omaggi (la sezione Europe Now!, quest’anno il focus è sul bosniaco Danis Tanovic e sulla belga Patrice Toye, nome tutto da scoprire), retrospettive (di Costa-Gavras e di Priit e Olga Pärn, coppia estone che lavora sul cinema d’animazione), eventi speciali.

Cinema, dunque, fatto da cineasti e cineaste del vecchio continente, salvo rare eccezioni. Una di queste è rappresentata da Nicolas Khoury, trentatreenne regista libanese, documentarista e montatore indipendente che vive e lavora a Beirut e che con Fiasco (co-produzione tra Libano e Olanda) ha esordito nel lungometraggio documentario. Si tratta di un film «familiare». In campo, nel presente e nel passato riaffiorante da home movies e filmini di finzione amatoriale, ci sono il regista, la madre Nelly, la sorella Tamara (e, da dopo sposata, anche il marito Elie).

IL PADRE Emile è morto da tempo e Khoury lo definisce un «fantasma» che aleggia in mezzo a loro – meglio parlare di «ombra», gli suggerisce la madre. Set principale, la casa di famiglia, anch’essa rientrante nel gioco di specchi, mutazioni, analogie che Khoury instaura tra oggi e ieri. Ma anche l’auto, altra «abitazione» che accoglie dialoghi e gesti che hanno per cuore l’identità, le aspettative, il senso da dare alle proprie vite. E in questa costante ricerca di quale sia il proprio posto esistenziale Khoury si trova spiazzato. Tamara si è sposata. La madre vorrebbe che anche lui si costruisse una famiglia. «Che la tua vita non sia un fiasco», gli dice. Ma di sé Nicolas parla poco e, anche se non lo ha mai detto esplicitamente, a lui le donne non interessano. Nel dialogo rivelatore in auto Tamara gli confessa che lo aveva capito, e che lo aveva compreso pure la madre.

 

Fiasco è un film di andate e ritorni, che ha lo sguardo leggero di un’opera confidenziale fatta di complicità, del buio delle stanze e della luce della natura che circonda la casa, e, ugualmente con toni lievi, è una riflessione sul filmare e sul filmarsi che torna come un leit motiv infrangendo la parete che separa campo e fuori campo. È soprattutto la madre a rimarcare la presenza della camera, dell’essere filmata da un figlio per il quale fare film, costruire immagini, scavare in quelle fatte in precedenza, sembra essere, è, questione irrinunciabile.

DAL LIBANO intimista di Fiasco alla Papua Nuova Guinea di 140 km à l’Ouest du paradis dell’esordiente Céline Rouzet il passaggio è forte. Qui la dimensione familiare, ben presente, è messa in relazione con quella sociale e politica dell’espropriazione delle terre indigene da parte della ExxonMobil che devasta villaggi e foreste illudendo gli abitanti che il «progresso» porterà loro benefici. Mentre i turisti bianchi in cerca di emozioni esotiche fotografano gruppi di nativi chiamati a danzare per loro.

Ma lo sguardo di un bambino che si avvicina all’obiettivo della regista francese dice tutto della tristezza di quei rituali ri-proposti a uso e consumo degli occidentali. Così come il bellissimo finale, dopo un viaggio nel cuore del dolore, della morte, delle violenze, delle sopraffazioni, invita a ritrovare e perseguire, silenziosamente, il contatto tra essere umano e natura nelle parole e nello sguardo di un uomo in mezzo alla foresta: «Su questa terra non fate rumore, non disturbate, siamo liberi, danziamo». È quello che gli uccelli comunicano a quella persona custode della tradizione che sa sentire e preservare le mille anime «nascoste» di un luogo che la globalizzazione vorrebbe, e lo sta facendo, cancellare.