Se fra il cinema e la società c’è consonanza vuol dire che le cose vanno bene. Per il cinema e per la società. Non capita spesso, sono coincidenze rare che si verificano solo quando i tempi sono eccezionali. In Italia accadde nel dopoguerra, e poi quando arrivarono i primi segnali del subbuglio, individuale e collettivo, degli anni ’60. Quando film per nulla realisti ci fecero capire un pezzo della vita più invisibile. Mi sembra che oggi – che è a suo modo un tempo eccezionale – tornino ad esserci – forse – sintomi interessanti di sintonia.

Rientro ottimista da qualche giorno di festival del cinema a Torino e vorrei parlare in particolare di un paio di film che sono riuscita a vedere. Sono stati chiamati documentari anche se sarebbe ora di adottare la dizione francese, ancora rara in Italia: cinema del reale (i documentari sono reportage giornalistici, in cui c’è coincidenza fra l’evento e l’immagine ritratta, non c’è il tempo necessario all’espressione della soggettività dell’autore, quella distanza che dà spazio alla creazione cinematografica). Il cinema del reale sembra per altro una scelta piuttosto comune alla nuova generazione di registi italiani, una tendenza che ci ha offerto eccellenze maggiori della fiction vera e propria. Non è un male, anzi. Un fenomeno analogo si verifica peraltro anche nella giovane letteratura.

Di nuovo c’è che è tornato in scena il lavoro. Merito, innanzitutto, dei lavoratori che negli ultimi mesi sono ridiventati protagonisti, dopo una fase in cui sembravano esser scomparsi. E merito di chi nel cinema se ne è accorto.

Alla ribalta sono rientrati per ragioni diverse dal passato, voglio dire che non si tratta di Contratto e delle altre pellicole sessantottine con i metalmeccanici pieni di forza e perciò vincenti. Quanto alcuni dei film di cui vorrei parlare ci hanno riproposto un aspetto del problema che per un verso è memoria e per un altro denuncia di un vuoto dell’oggi: l’orgoglio operaio, la consapevolezza della centralità del loro ruolo, e per questo dell’essenzialità del loro protagonismo sociale, politico e culturale. Non a caso queste pellicole ci narrano vicende del passato, e per il fatto stesso di rammentarcele ci fanno sentire l’assenza oggi di quella forza soggettiva.

Mi hanno colpito in questo senso due film, Togliattigrad, e uno che avevo visto pochi mesi fa, La zuppa del diavolo.

Il primo, di Federico Schiavi, narra – devo dire con grande equilibrio politico – di quando la Fiat andò, pioniera fra le grandi aziende occidentali, a costruire una gigantesca fabbrica di automobili nella desolata landa di Kubiscek, a 24 ore di treno da Mosca. Partono da Torino, per aiutare l’avvio dello stabilimento, decine di tecnici e operai (quasi tutti comunisti) e c’è un bel racconto del loro incontro con i russi, di cui dicono che sono calorosi come i napoletani, lavorano sodo ma organizzano anche balli e bevute. In 32 torneranno con una moglie sovietica.

Le immagine innevate dell’Urss si alternano con quelle delle grandi manifestazioni di lotta dei metalmeccanici che a Torino investono in quegli stessi anni – i ’60 – l’azienda. E, ironico, commenta la contradizione l’avvocato Agnelli, cui Mosca fa il bel regalo di ribattezzare Kubiscek col nome nientemeno che di Togliatti. I torinesi diventano, per questo, anche più fieri per quello che stanno costruendo (anche se scoprono che scioperare lì non si può). Sono fieri perché sono artefici della modernità, portatori dell’innovazione tecnologica, anche se in patria contestano i ritmi micidiali della catena di montaggio, l’ossessione della produttività, che ne sono un aspetto inseparabile.

È lo stesso orgoglio che si vede nella Zuppa del diavolo, il film che Davide Ferrario ha montato con materiali di archivio conservati ad Ivrea. Riguardano la grande epopea del boom italiano, quando furono costruite acciaierie, fabbriche chimiche, autostrade, quando tonnellate di cemento e di fumi velenosi furono versate sul paese. Ma erano anni in cui ai guasti irreparabili prodotti dall’industrializzazione non ci si badava troppo, l’ambientalismo non era ancora nato. Preoccupazione viene invece dai brani che accompagnano le immagini, quelle dei primi scrittori critici di questa modernità: Pasolini, Ottieri, Volponi, Calvino che Ferrario ha giustapposto alle immagini dei cantieri. Confesso che quando alla fine si vedono gli operai in tuta che escono non so da quale gigantesco stabilimento, la faccia radiosa di chi si sente al centro di una grande vicenda storica, e ho pensato all’oggi, mi sono venute le lacrime agli occhi. Le stesse che ho sentito sulla guancia guardando l’ultima scena di Togliattigrad: il capannone della Fiat Grandi Motori di Torino svuotato dalle macchine, abbandonato dal lavoro. E uno degli ex operai che erano stati in Russia che dice della vita dei licenziati chiedendo: «ma lo sapete in quanti in questi anni si sono suicidati? Perché non è solo una questione di salario». Nella sala, stracolma di operai Fiat e di vecchi comunisti richiamati dal nome di Togliatti, si sentiva la stessa amarezza.

Non è questione solo di salario. Il lavoro alienato non è una liberazione, ma quando ti fa sentire di avere un ruolo, è una cosa importante. È questo che oggi senti mancare nella protesta operaia: perché le fabbriche oggi si chiudono, non si costruiscono. È proprio il loro ruolo in questa economia sempre più virtuale, dove il lavoro operaio è stato marginalizzato, dove non ha più la stessa collocazione positiva in un modello di sviluppo che ne ha distorto il senso, ad essere messo in discussione.

Quello che dobbiamo ripensare, insomma, è enorme, schiacciante: non solo come creare lavoro, ma come ridargli senso e ruolo in un sistema che deve essere qualitativamente diverso. Di questa drammaticità i due film di cui ho parlato danno una bella testimonianza.

Analoga, ma diversa, annotazione viene da un altro film di Torino, Triangle, di Costanza Quadriglio (che ha anche vinto il premio Cipputi): la sua storia è quella famosa dell’incendio della fabbrica di abbigliamento a New York nel 1913, quando morirono decine di operaie bruciate o costrette a gettarsi nel vuoto perché il padrone aveva chiuso a chiave le porte ( quella cui si è ispirata la celebrazione dell’8 marzo), una vecchia storia ma raccontata con molto materiale inedito, intrecciata con quella del crollo di Barletta che uccise, nel 2011, molte giovani operaie che producevano magliette in un laboratorio improvvisato e insicuro. Tutte pagate in nero. La voce dell’unica uscita viva da sotto le macerie denuncia una condizione ancora più triste: sembra non aver neppure coscienza dei suoi diritti. Anche questo è un pezzo della realtà di oggi.

Quello che dico è triste, lo so. Ma siccome la mobilitazione sindacale di queste settimane ci ha ridato speranze è bene esser anche consapevoli che non siamo al ’68, che «un altro mondo è certo (ancora) possibile», ma dobbiamo faticare molto per inventarcene uno adeguato.