Figlio di un diplomatico polacco a Parigi e nato nel 1940, in una Leopoli ancora in terra polacca, Andrzej Zulawski era un regista «a tutto tondo», diverso anche per formazione rispetto ai coetanei Jerzy Skolimowski e Roman Polanski che avevano studiato alla scuola di cinema di Lodz. Zulawski avrebbe trascorso la sua adolescenza in Francia, prima di entrare all’Institut des hautes études cinématographiques, dove avrebbe imparato a girare un film in tutte le sue fasi di lavorazione. Era nascosta lì dietro ad un termosifone a Breslavia la sua scatola magica. Senza quello strato giallastro e appiccicoso di colofonia a proteggere la pellicola, il negativo di Sul globo d’argento sarebbe andato perso. Insieme a Mani in alto (1967) di Skolimowski, il crudele viaggio coloniale sulla luna di Zulawski, tratto da un romanzo del nonno Jerzy e girato nel deserto del Gobi, è una delle due grandi opere incompiute del cinema polacco. Entrambi i film erano caduti sotto gli strali della censura di stato prima di essere completati negli anni ottanta con sequenze documentarie commentate dagli stessi registi. «L’ho completato nel 1988 soltanto per mostrare rispetto verso tutti quelli che avevano lavorato alla realizzazione di questo film» aveva ribadito più volte Zulawski nel corso della sua carriera costellata di pochi riconoscimenti nel circuito festivaliero che conta. Qualche mese fa è arrivato il Pardo per la miglior regia con Cosmos, un thriller che non ha nulla del testamento artistico, riproposto con una proiezione speciale alla Berlinale dopo la scomparsa del regista la settimana scorsa in un ospedale di Varsavia. Con La sciamana (1996) era arrivato almeno un poco consolatorio succès de scandale al Lido che avrebbe devastato psicologicamente, in modo bertolucciano, la vita dell’attrice esordiente Iwona Petry, un po’ come accadde a Maria Schneider dopo Ultimo tango a Parigi. Non fu facile nemmeno la collaborazione sul set della stessa pellicola con Boguslaw Linda, stella indiscussa del cinema d’azione polacco disposto a mostrare i muscoli ma molto meno a recitare nudo. Il cineasta polacco avrebbe diretto in seguito il film autobiografico La fedeltà (2000) nel quale aveva ripreso La principessa di Clèves di Madame de La Fayette per metabolizzare sul grande schermo la fine del suo idillio amoroso con Sophie Marceau. Zulawski l’aveva conosciuta alla Croisette nel 1981, nell’anno in cui Andrzej Wajda trionfò a Cannes con L’uomo di Ferro. Quasi tutti i registi polacchi nati prima della guerra fredda erano passati per la bottega di Wajda come aiuto-registi, e Zulawski non ha fatto eccezione. Nello stesso anno, l’artista polacco avrebbe rielaborato il dramma del suo divorzio dall’attrice Malgorzata Braunek in modo creativo nel cult movie Possession, un ibrido a metà tra horror e dramma psicologico zuppo di sangue in cui lo sfaldamento familiare è immerso in un’atmosfera onirica fatta di doppelgänger, mostri viscidi, e amplessi surrealistici che sembrano usciti dai canti di Maldoror. In una scena del film, lo spettatore assiste insieme al protagonista Mark (Sam Neil) all’accoppiamento della moglie Anna (Isabelle Adjani) con una piovra gigante, una sequenza che sembra ispirata alla celebre xilografia erotica di Hokusai Il sogno della moglie del pescatore. A presentargli Wajda molti anni prima era stato Polanski in un incontro al celebre Café de Flore in boulevard Saint-Germain. Zulawski gli raccontò di aver scritto la propria tesi di laurea su I dannati di Varsavia (1957), una cosa che impressionò molto Wajda. Zulawski si ritrovò poi catapultato sul set di Samson (1961) in Polonia dopo avergli raccomandato l’attore francese Serge Merlin che faticò non poco a sbloccarsi in trasferta durante la lavorazione del film. Ma dopo l’intervento di Zulawski le cose andarono meglio. Di Wajda, Zulawski ha sempre ammirato lo stile napoleonico sul set, quel suo scegliere con un secco sì o no le migliori proposte dei suoi generali sul set. Dopo la rottura con la Marceau, Zulawski si sarebbe preso ancora una lunga pausa dal cinema, un periodo piuttosto lungo durante il quale scrisse una quindicina di libri. Oltre ad essere un cineasta intransigente ma generoso, Zulawski era anche uno scrittore proficuo e consapevole di non potere creare un sistema balzacchiano per via dei suoi laboriosi progetti dietro la macchina da presa. Un assaggio della sua opera letteraria ancora poco conosciuta all’estero è apparso in Italia nel 2013 con il romanzo C’era un frutteto, tradotto con coraggio da Marina Fabbri per i tipi di Alpine Studio. C’era anche lei al corteo per i funerali del regista, guidato dal figlio Xawery, anch’egli talentuoso cineasta nato dal suo matrimonio con la Braunek. Nel cinema di Zulawski non vi è mai olezzo di letteratura nemmeno quando mette in bocca ai suoi personaggi l’Apocalisse di Giovanni come nel caso del suo allucinato capolavoro d’esordio La terza parte della notte (1971), girato con effetti volutamente lisergici utilizzando della pellicola ORWO fabbricata nella Germania dell’Est. I dialoghi tormentati nelle sue opere più oscure quali Il diavolo (1972), ambientato ai tempi della Seconda spartizione della Polonia, fungono da erdenrest goethiano, residui di carne filmica post-mortem che testimoniano la complessità del suo cinema sofferto e crudele, a priori contro tutto e tutti.