Oggi e domani, a Torino, al Museo nazionale del cinema nell’ambito di «SoundFrames», mostra su cinema e musica, verranno presentati i film di Bruce Conner (1933-2008), un’occasione rara da non perdere. L’iniziativa ha la firma di Reading Bloom (per tutte le info www.readingbloom.com e pagina social) assieme al Conner Family Trust (curatore del programma è Michelle Silva). Ci saranno le proiezioni dei corti, in pellicola 16mm e in digitale, versione restaurata .

A presentare i lavori – fra i titoli, A Movie (’58) e Cosmic Ray (’61) – ci sarà Ross Lipman (www.corpusfluxus.org): filmmaker indipendente, saggista, archivista, restauratore dei film di Conner, Charles Burnett, Shirley Clarke, Barbara Loden, ma anche Kenneth Anger, John Cassavetes e tanti altri. Lipman presenterà la sua performance-essay dal titolo The Exploding Digital Inevitable, incentrata sul restauro in 4k e la produzione di quello che è forse il film più estremo di Conner, Crossroads (’76).

Nel cinema, Bruce Conner è noto per essere uno dei maestri del found footage. Per avere una cognizione precisa del suo ruolo e valore, si può prendere come riferimento un libretto importante come quello scritto da William C. Wees, il cui titolo è Recycled Images. In questo volume, Wees definisce i film di Conner «collage films», con riferimento alla tradizione dell’arte del collage. Schematicamente, si può dire che per Wees questa metodologia risulta essere quella più modernista tra le altre da lui indicate nel libro – compilation film e appropriation – nella misura in cui è potenzialmente in grado di mettere in questione la rappresentazione derivante dal materiale originario utilizzato. Questo perché il lavoro dell’autore interviene direttamente sulla significazione dell’immagine, in una maniera simile al film d’avanguardia.

È in questo quadro che si può collocare Crossroads. Il titolo dell’opera proviene dalla «Operation Crossroads», nome dei primi due dei 23 test nucleari che gli Usa condussero nell’atollo di Bikini, tra il ’46 e il ’58. Nello specifico, Conner ha lavorato su filmati d’archivio declassificati dei National Archives statunitensi relativi al primo test subacqueo condotto il 25 luglio del 1946, e quello che è venuto fuori è un film di 23 riprese della stessa esplosione ma a diversa velocità e da diverse angolazioni, con una colonna sonora di Patrick Gleeson e Terry Riley.

Crossroads trasmette sicuramente qualcosa di estremo. Qualcuno – J. Hoberman per «The New York Review of Books», nella recensione della mostra che il MoMA dedicò a Conner nel 2016 – ha parlato di arte religiosa a proposito di questo film. Ora, senza ricercare etichette, l’alterità di Crossroads si potrebbe spiegare col fatto che la sua visione ci mette di fronte a qualcosa di inquietante che tendiamo spesso a dimenticare, cioè l’ambiguità presente in una immagine.

In questo caso, non è tanto ciò che è registrato e sviluppato sul materiale, ossia il disastro in sé – l’atomica, la continuità dello scoppio che prolunga l’apocalisse – quanto la possibilità di poter contemplare tutto questo, cioè la possibilità che, in fondo, l’apocalisse ci possa piacere, provocando una sensazione tale da unire e mescolare bellezza e nichilismo, senza soluzione di continuità. In tutto questo, quel che allora viene meno sembra essere la dialettica temporale. Il film assorbe e distanzia allo stesso tempo.

The Exploding Digital Inevitable di Ross Lipman è una performance-essay – o live documentary – in cui l’autore offre un «report» attorno a Crossroads con un prima e un dopo l’esperienza del film che Lipman chiama rispettivamente «Histories» e «Prognostications».
Già da questa struttura e questi titoli, si può capire come il tentativo sia quello non di interpretare ma di contestualizzare il lavoro di Conner, prendendo in considerazione tanto gli aspetti storici e culturali quanto le possibili diramazioni dell’opera. Lipman fa parlare i materiali. In pochi minuti, fa per esempio capire che l’interesse di Conner per il soggetto in questione – viene chiamato «one of the most devoted chronicler of the bomb» – è qualcosa che c’è fin dai suoi inizi filmici (si pensi a A Movie), tanto che poi lo stesso Lipman colloca l’artista fra le prime figure di un genere (per ora) non riconosciuto, quello dell’«Atomic Cinema».

Fra i tanti argomenti della performance-essay, vale la pena sottolineare quello musicale, abbastanza ricco – c’è anche una digressione, ovviamente ragionata, sugli Who. Al centro ci sono i compositori che hanno lavorato al progetto. Lipman ha intervistato entrambi. Gleeson racconta di come, nel suo lavoro, fosse stato influenzato dalla ricerca di Walter/Wendy Carlos, specificatamente nell’uso del sintetizzatore e dall’album Sonic Seasonings (1972). Riley suggerisce che l’opera offre un punto di vista filosofico sull’argomento del film: «In the end, things that look like big explosions are just like maya. They’re unreality». Nel commento dato a Lipman, il richiamo che poi Riley fa all’uso della lentezza nell’opera potrebbe suggerire, anche, una piccola provocazione a posteriori. Quella di considerare Crossroads come un vero e radicale «slow cinema».