Ama la provocazione Il Cile, curioso nome d’arte dietro cui si nasconde Lorenzo Cilembrini, classe 1981. L’artista aretino dopo un primo album che suonava come una dichiarazione d’intenti sin dal titolo Siamo morti a vent’anni nel 2012, per il suo ritorno gioca ancora e azzarda in latino con In Cile veritas (Universal). E per completare l’opera in copertina si fa immortalare sdraiato su una croce disegnata a gesso per terra. Magari con in mente Madonna di qualche stagione fa, anche se lei – noblesse oblige, si era fatta issare su una croce tutta tempestata di cristalli Swarovski…

«Dopo il titolo che avevo dato al primo disco – risponde ridendo al telefono – o ne sceglievo uno serioso, con il rischio di diventare noioso, o ne provavo uno ironico. E visto che di metafore alcoliche le mie canzoni sono piene, ho deciso di scegliere la seconda strada. D’altronde sono cresciuto nelle campagne aretine tra uva e vendemmie… Per quanto riguarda la copertina volevo rappresentare quello che significa oggi – ai tempi dei social network – mettersi in pasto al pubblico. Non nego l’importanza di Facebook e affini però hanno distorto le metodologie di comunicazione. Se nella vita reale prima di criticare aspramente qualcuno ci si pensa due volte, dietro un avatar escono talvolta cose bieche e non tanto ponderate. Fare il mio lavoro – bellissimo per carità – può diventare a volte una crocifissione…».

Piccola digressione, Il Cile ha esordito a inizi 2014 anche in campo editoriale con un libro Ho smesso tutto: «Il libro è nato da un interesse da parte della casa editrice Kowalski nei confronti della mia scrittura. Alla proposta di un romanzo ho risposto sì, a patto che potessi farlo a modo mio. Avevo in mente un’opera di fantasia che fosse un ritratto di un cantante alle prese con i suoi escursus vari di sentimenti, paure, deliri. Ma volevo farlo in maniera dissacrante, miserabile talvolta. Quasi un Alberto Sordi della situazione. Non ci sono velleità intellettuali, voleva essere solo uno zibaldone satirico».

In Cile veritas – prodotto da Fabrizio Barbacci (Negrita, Gianna Nannini, Ligabue) – raccoglie dieci brani d’impatto melodico arrangiati sapientemente con piglio rock su cui la sua voce – roca e con un ’graffio’ naturale convincente – ricama storie d’amore in tempi di crisi… «Nel primo disco c’era molta malinconia e rabbia. Qui cerco sempre di esprimere le cose che sento e magari mi tormentano ma che allo stesso tempo si connettono con le persone che sono vicine a me. Però non sono pessimista, pur vivendo in questi anni di crisi – non solo economica, ma di valori e di cultura, nutro sempre la speranza in giorni migliori. Anche chi mi segue sui social non smette di inseguire i propri sogni; che siano un lavoro secondo inclinazione o crearsi una famiglia, oggi quasi mera utopia..».

La figura del cantautore tradizionale si è come estinta, la discografia malata è aiutata principalmente dai giovani rapper: «Diffido dall’icona del cantautore, anche se ho amato e amo De Andrè, Guccini, De Gregori. Credo che oggi si possa portare avanti un progetto derivativo. Quello che provo a fare è ispirarmi a quanto ho ascoltato in passato e trasferirlo, sia a livello produttivo che comunicativo al passo con i tempi. Ma non c’è nulla di razionale e studiato. Ho avuto la fortuna di aprire i concerti di Jovanotti, ecco quando vedi un suo show capisci che dietro ci sono idee forti e un investimento economico anche pesante, allo scopo di cercare altre strade».