A che punto è la ricerca degli uomini su se stessi? Non solo per quanto concerne il processo di liberazione dalla violenza di genere e dalla mascolinità tossica, dalle forme del patriarcato ancora proterve o latenti che siano, o da quelle già in palese pietoso disfacimento, ma in una direzione propositiva, assertiva, ossia per costruire maieuticamente un maschile differente?

E poi: come si rapportano a tutto questo, autrici cinematografiche tra i venti e i trent’anni, quanto e come sentono la necessità di un confronto?
Con I figli si baciano soltanto quando dormono il moto di avvicinamento è avvenuto da parte di quattro registe – Letizia Salerno Pittalis, Chiara Canale, Chiara Ferretti, Giulia Zini – alle prese con il loro film di diploma alla Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti di Milano: sono loro che hanno incontrato Il Cerchio degli Uomini di Torino, una delle venticinque realtà che in Italia si impegnano da anni per far evolvere l’autoconsapevolezza maschile.

L’esito di questo dialogo sono 37 minuti di scambio e reciproco ascolto, con la scelta efficace di un metacinema che vede le autrici nel doppio ruolo di registe e di partecipanti al Cerchio, coi volti, i corpi e le storie di ognuna.

Nel frattempo, nell’intessersi dell’interlocuzione, molteplici argomenti si versano uno nell’altro come affluenti di uno stesso grande fiume: dalla paternità consapevole nella ricchezza della sua dimensione emotiva, all’imprescindibilità dell’educazione affettiva sessuale e di genere, all’irrompere nel film di un episodio di violenza contro una donna, e alla sottolineatura di come ciò ancora possa avvenire nella più totale sordità dei vicini di casa; fino alla sessualità, al piacere e ai modelli relazionali propagati dalla pornografia, agli stereotipi senza i quali in tanti non saprebbero su cosa fondare la propria identità, fino alla questione del sentirsi responsabili in quanto uomini, all’attivismo con le sue stanchezze, inseparabili dalla spinta a non smettere mai. E ancora fino a quel nodo cruciale che è il linguaggio, pulviscolo sessista che va continuamente setacciato, bonificato.

Quando ho visto I figli si baciano soltanto quando dormono – personalmente dopo vent’anni di lotta e di analisi su questa materia – mi sono sentita confortata e rinfrancata. Tanto che ho pensato: è in questa direzione che bisogna continuare a muoversi, ad libitum, a oltranza, in modo sempre più ampio, profondo e sfaccettato.
Così, grazie al supporto del Festival dei Popoli – dove il film è stato proiettato lo scorso novembre a Firenze – e della Mediateca della Toscana, che ci ha gentilmente ospitati, ho invitato a un tavolo di riflessione le quattro registe e tre degli uomini del Cerchio presenti al festival – Roberto Poggi, tra i fondatori, Lillo Pino e Giancarlo Fabaro -. Quella che segue è la tela che insieme abbiamo creato. «Opera aperta» sul futuro e in continuo propulsivo divenire.

Chiedo a ognuna di voi registe le motivazioni al progetto, incluse quelle più personali.
Letizia: Sono stata io a proporre l’idea: vengo da Torino e conoscevo già il Cerchio degli Uomini anche se non li avevo mai contattati. In realtà, prima avevo pensato a un altro progetto che indagasse la storia di Princess, una donna nigeriana che dopo diciassette anni è riuscita a uscire dalla tratta e a fondare un’associazione che sostiene ragazze col suo vissuto. Però, dopo un sopralluogo a Torino, mi sono accorta che la mia urgenza era di concentrarmi sugli uomini. Perché io ho 32 anni, ma mi sento già molto affaticata per la violenza che il mio genere si è dovuta sbucciare. E avvertivo proprio il bisogno che gli uomini cominciassero a parlare di questi temi e della violenza contro le donne. Da parte mia vivo spesso una contraddizione: da un lato ho voglia di incontrarli, di ascoltarli, di capire come crescere insieme altre bambine e bambini, dall’altro c’è il mio lato oscuro, un rabbia immane, un’istintiva reazione forte alla tremenda ingiustizia che continua a essere perpetrata. Così ho provato un grande sollievo nello scoprire il lavoro del Cerchio.
Chiara Canale: Avevo perso completamente fiducia nella figura dell’uomo e gli uomini del Cerchio me l’hanno ridata. Mi hanno trasmesso la visione di qualcosa di nuovo, di più profondo. L’argomento che mi ha motivato personalmente è stato quello della paternità e dell’approfondire la relazione con mio padre.
Giulia: Non sono stata io a trovare il Cerchio, ma il contrario, proprio quando stavo indagando sulle figure maschili della mia famiglia. Con gli uomini del Cerchio c’è stato un arricchimento che porterò sempre con me. Per questo ritengo essenziale che nel film ci siamo sia noi sia loro, perché è stato un dare reciproco.
Chiara Ferretti: Mi sono avvicinata al progetto perché nella mia vita ho sempre avuto a che fare con dinamiche tossiche legate al maschile, in famiglia e fuori. Nel film ognuna di noi mette in gioco vissuti personali e c’è un momento in cui io condivido un’esperienza di relazione abusiva. In quel caso non ho avuto la possibilità di una interlocuzione rappacificante, così sentire gli uomini del Cerchio che letteralmente maneggiavano le emozioni con tanta cura, mi ha confortata e lenita. Mi sono accorta che stavo andando oltre le mie ferite personali e verso una concezione più ampia. Poi, mentre lavoravamo al film, siamo state svegliate dalle urla di una donna al piano di sotto, abbiamo veramente percepito come la violenza sia ovunque intorno a noi. E il documentario – per me uno strumento di lotta – ci ha aiutato a ricondurre tutto questo a una cultura che continua a nutrire simili modelli di relazioni. Così, partecipare al Cerchio è stato un lavoro intimo di condivisione, dove non eravamo l’occhio esterno che filmava, ma vivevamo il tutto alla pari.

Ora propongo agli uomini di tornare indietro al momento del vostro primo incontro con il Cerchio.
Roberto: Era la fine degli anni ’90: allora riflettere su noi stessi voleva dire riprendere le esperienze che come postsessantottini avevamo avuto con il femminile del primo ‘68, e mi riferisco non a un punto di vista politico ma a quello della relazione. Si trattava di donne che avevano reclamato la loro libertà e noi di fronte a questa libertà ci eravamo ritrovati meno che nudi, del tutto impreparati. Così – dopo un lavoro di revisione – siamo giunti agli anni ’90 e ci siamo resi conto che ritrovarci in un gruppo di uomini a riflettere poteva essere un esperimento interessante. Riguardava la maschilità, la violenza, il rapporto con le donne ma anche quello tra uomini e la propria omofobia… c’era una valanga di roba. Non era un lavoro fatto di intellettualizzazioni, ma dal cuore. Tra l’altro, è stato così che mi sono ritrovato a scoprire la mia emotività e a non sapere bene cosa farne.
Lillo: Sono arrivato al Cerchio in un momento di sofferenza: mia moglie e io ci stavamo lasciando e dovevamo spiegarlo ai nostri figli. Così siamo andati a parlare con due neuropsichiatre e io ero molto fragile, stavo male. Tanto che a un certo punto ho detto: non so se sono un uomo sbagliato… se fossi più forte, soffrirei meno. E le dottoresse mi hanno risposto, non sei tu a essere diverso, come te ce ne sono pochi ma ci sono, e mi hanno lasciato il contatto di Roberto. Un giorno, poi, quando già frequentavo il Cerchio, mi sono imbattuto in un volantino, c’era un incontro sulla violenza maschile. Subito mi sono detto, ma a me cosa interessa, mica sono violento, io… non sono un mostro …Poi però ho cominciato a leggerlo e mi sono accorto: però questa cosa ce l’ho, e anche questa, ne ho trovate cinque o sei e allora ho pensato, meglio cominciare a fare un lavoro più complesso e ora sono dodici anni che frequento il Cerchio.
Giancarlo: Nella mia famiglia la figura più tossica è stata quella di mio padre, un uomo violento autoritario e ignorante, che mi ha umiliato per tutto il periodo in cui sono stato in famiglia. Sono poi scappato ma continuavo a vivere la dimensione del maschile in modo negativo: durante una meditazione la visualizzai come un mostro orrendo e nerboruto, mentre il femminile era una meravigliosa figura piena di luce. Non riuscivo a confrontarmi col mio essere maschio: perché culturalmente e mentalmente io non sono una donna. Sì, poi, a certi livelli, alcune differenze sono veramente quasi inesistenti, ma ci sono. Avevo cercato di condividere il mio disagio con alcuni amici ma non ne avevo trovato neanche uno disponibile. Poi, quando sono andato a una prima seduta del Cerchio è stato come un ritorno a casa, qualcosa che aspetti da tutta la vita. Mi sono ritrovato con uomini sensibili e accoglienti: c’era un’estrema libertà di espressione…

E come avete vissuto l’esperienza del film con le quattro registe qui presenti?
Roberto: Col Cerchio negli anni abbiamo intrapreso un dialogo con le femministe, con i centri antiviolenza, con la politica e così è diventato un percorso a trecentosessanta gradi. Ma finora ci eravamo confrontati solo con donne coetanee e con la nostra stessa esperienza storica, mai con ragazze così più giovani di noi. Per quanto mi riguarda, ho dovuto lavorare sulla proiezione che me le faceva vedere come figlie, per arrivare a contemplarle come persone molto differenti da me con cui si realizzava il miracolo di una comunicazione che andava al di là delle parole e dei ragionamenti. Il periodo della separatezza del femminile è stato necessario per rompere situazioni estreme ma adesso sta scemando. E il fatto che loro avessero un doppio ruolo di registe e di partecipanti al Cerchio è stato fondamentale.
Lillo: Con i figli dialogare è più complesso, con loro invece si è parlato in modo aperto di qualunque cosa. All’inizio ero un po’ scettico ma quando si sono sedute accanto a noi questo muro è crollato.
Giancarlo: Sono arrivate in punta di piedi. Il linguaggio con cui ci siamo confrontati era subito differente da quello sperimentato con le donne coetanee. L’esperienza con loro è stata di estrema leggerezza, di immediata empatia. Quando ci siamo salutati, in noi c’è stata un’emozione di gratitudine.

Quella della violenza di genere è una questione sistemica, che vede i diversi fattori agenti strettamente compenetrati tra loro: siano essi di carattere storico, culturale, economico, giuridico… Il film tira in gioco alcuni di questi elementi –- tra cui quello imprescindibile dell’educazione. E Roberto usa un’espressione che mi sembra cruciale, parla di «strozzatura emotiva» del maschile.
Roberto: «La strozzatura» fa parte del maschile di tutti i giorni da almeno sette ottomila anni. Da sempre ci insegnano a tenere le emozioni lontane, minime, come in un’ombra imperscrutabile. Infatti nel Cerchio si lavora su questo, cercando però di non esserne troppo consapevoli, perché se te ne accorgi, le ricacci giù. Quando invece superano il livello del cuore, non puoi più fermarle e riesci a sentirle pienamente. L’armatura del maschile si fonda proprio su questa strozzatura delle emozioni. Il riconoscerle ti porta a entrare in contatto con te stesso e con l’altra, l’altro e ti impedisce di evolvere in atti violenti. Bisogna essere sufficientemente consapevoli in modo da far sì che questo passaggio non si chiuda perché nel momento in cui ciò avviene, io nego quello che ho dentro, nego chi ho davanti, nego la relazione e me ne sbatto di tutto, fino a dire quello che mi viene dalla parte che possiamo chiamare «rettiliana», dalla parte del maschile tossico. Quindi il lavoro non è finito, continuerà un centinaio d’anni, siamo partiti ma non siamo ancora arrivati. Poi, alcuni di noi lavorano anche con gli uomini che hanno agito violenza e lì si apre un capitolo enorme.
Giancarlo: Fino a dieci quindici anni fa, per paura di essere giudicato, nelle relazioni che avevo non mi ero mai permesso di esprimere le mie emozioni profonde. Invece il lavoro di questi anni mi ha reso consapevole di quello che di doloroso avevo dentro e mi ha sbloccato.
Lillo: É la questione della corazza, fatta di mille divieti e stereotipi interiorizzati non coscienti: un uomo non deve piangere, un uomo deve essere forte. Con la condivisione cambia tutto e abbiamo visto che funziona anche nelle scuole, i ragazzi si sono espressi come mai avrebbero immaginato di fare. È cruciale creare luoghi in cui ci si possa dire: io sono io e non mi importa se là fuori non ci sono altri uomini come me.
Letizia: Ho dovuto fare un grande lavoro per riuscire a tirare fuori la rabbia. Personalmente, grazie a mia madre e al suo confidarmi certi suoi vissuti fortemente dolorosi, ero a conoscenza di alcuni strumenti per discernere situazioni di pericolo e questo mi ha risparmiato molte sofferenze. Ma tante mie amiche invece le hanno conosciute. Per questo mi sono sempre sentita così arrabbiata. Quindi per me lavorare sulla strozzatura ha significato riconoscere l’emergere del conflitto, imparare a gestirlo e addomesticare la rabbia, il senso di frustrazione e di ingiustizia.

Su questo foglio ho segnato uno accanto all’altro gli argomenti discussi dal film. Tra questi ce n’erano alcuni che avreste voluto approfondire o altri non trattati su cui vorreste lavorare?
Letizia: abbiamo girato 30 ore e abbiamo fatto un film di 37 minuti. Io approfondirei la parte dell’omofobia interiorizzata e dell’orientamento sessuale. Nelle parti escluse al montaggio c’era anche una riflessione su cosa possa comportare per un uomo l’incontro con una soggettività transessuale.
Chiara Ferretti: Quando abbiamo finito il film, ho avuto il desiderio di diffondere per la città una serie di performance. Si mettono le sedie in cerchio e si invitano le persone a scambiarsi punti di vista. Il potere di questa di questa condivisione è veramente disarmante: abbiamo oltrepassato tutte le barriere di genere, di orientamento e le separazioni generazionali.
Giulia: Grazie al film è migliorata la relazione con le figure maschili della mia famiglia e vorrei continuare ad approfondirla in ambito artistico.
Chiara Canale: Pensare che l’educazione dei ragazzi avvenga solo tramite la pornografia è terribile. Credo molto nel il lavoro che il film può fare nelle scuole.
Roberto: Penso al timore dell’incontro con l’altro, l’altra. C’è una resistenza che si trasforma in paura e da lì poi nasce la violenza palese o sottile, la svalutazione. Quando parli di sessualità hai la sensazione che malgrado l’infinita letteratura, non ne sappiamo niente, anche perché forse c’è solo da lasciarla fluire.
Giancarlo: Alcune esperienze che ho avuto mi hanno trasmesso l’idea che la sessualità sia la porta principale per liberarci dai condizionamenti. E anche la sfera della nostra vita in cui ne abbiamo subiti di più. Nell’ambito della violenza molti meno, perché è tollerata e a volte persino giustificata.

Un elemento su cui non bisogna smettere di lavorare secondo me è quello del linguaggio. Nel film viene ancora fuori l’esigenza di separare irreversibilmente il concetto di amore da quello di violenza, e questo fa capire quanto ancora sia protervo il retaggio che tende a unirli. Poi, gli esempi di linguaggio come microparticelle sessiste che respiriamo di continuo sono infiniti; la parola «puttana», con cui sono state ricattate le donne di tutti i tempi, viene ancora usata dagli adolescenti e lo stesso avviene ahimé in diverse serie tv… Nel film c’è anche un momento in cui Roberto associa l’essere uomo a una serie di aspetti legati all’accoglienza e alla cura, che di solito sono ricondotti alla «parte femminile» e per cui bisognerebbe forse trovare una parola apposita…

Roberto: Il linguaggio è il veicolo che trasmette automatismi e associazioni di cui spesso non siamo consapevoli. Essere uomo significa tante cose. Quella che per tanto tempo abbiamo chiamato «parte femminile» è il modo maschile di essere al mondo con gentilezza e accoglienza, cura all’altro. Da parte mia, credo in un lavoro per l’incontro di tutte le differenze, a sbriciolare quello che fissa l’identità su uno stereotipo. L’identità è ciò che io sento prima ancora di nascere e, volendo rifarsi alla storia zen, ancor prima che nascessero i miei genitori.
Letizia: Possiamo far sì che le differenze si parlino, imparare a ragionare in maniera intersezionale: io non sono solo una donna, sono anche precaria, lesbica, bianca. É necessario che la lotta di chi è migrante, di chi è disabile, la lotta di genere siano dell’intera società. Bisogna prepararsi al dialogo con l’altro, non è una cosa che viene insegnata, perché in primis passa attraverso il contatto che ogni persona riesce ad avere con la profondità di sé.