Boom turistico a Napoli e modello Dema sono un binomio di cui si parla sempre più spesso. Nel 2016 con quasi tre milioni di presenze, si è segnato un nuovo record: un fenomeno simile, inedito in città, non può non occupare una posizione di rilievo all’interno del dibattito pubblico. Cominciamo dall’inizio. La totale deregolamentazione dei flussi turistici sta investendo indiscriminatamente il territorio e le abitudini degli abitanti. La percezione di questo disagio viene spesso canalizzata verso discorsi securitari, attraverso la chiamata alle armi contro la cosiddetta movida. Se, da un lato, il governo locale si è dimostrato entusiasta dei risultati ottenuti con il laissez-faire; dall’altro, l’impressione è che all’interno di una tale cornice i movimenti sembrano del tutto impreparati a fornire una risposta alle istanze e ai bisogni di una città profondamente cambiata nella sua composizione sociale e, vogliamo aggiungere, etnico-razziale.

DI FRONTE A QUESTI FLUSSI, lo spazio urbano e le abitudini si sono progressivamente assemblati per rispondere alla nuova domanda del cibo veloce, dell’itinerario turistico, della passeggiata sul lungomare, dell’Airbnb. Il risultato è stato una progressiva gourmetizzazione del centro storico. Il dibattito sulla movida fa emergere automaticamente questioni che andrebbero analizzate singolarmente: mercato del lavoro, uso degli spazi pubblici, violenza, vivibilità, sicurezza. Ciò nonostante, il dibattito sulla «turistificazione» della città si è appiattito unicamente sul come governare al «meglio» tale processo. Un’impostazione che contiene una certa arresa al fenomeno: basta solo regolamentarlo/governarlo per renderlo «giusto e redditizio».

Il senso comune generalizzato è che la ricchezza portata dai turisti rafforzerebbe l’economia cittadina offrendo nuove opportunità di lavoro; basta apportare una qualche forma di «socializzazione» dei benefici. Eppure, non solo dietro l’advertising della città affollata di turisti si nasconde un’economia fragile legata alle attività commerciali più dequalificate, assai lontana da un qualunque presunto modello Florida, ma il dibattito non ha quasi mai stimolato una riflessione sulle modalità di reclutamento della forza-lavoro, sulle competenze, sulle condizioni di lavoro, sulle prospettive di lungo periodo di questo singolare «modo di produzione».
Nella «città dell’accoglienza» il contributo della popolazione non-bianca, la messa al lavoro del dispositivo etnico-razziale, a sostegno della «Napoli che cambia» non è stato affatto reso pubblico. Il dibattito politico cittadino non sembra differire molto dal discorso egemone che affronta la «questione migrante» solo in un contesto di emergenza permanente, avendo poco da dire sul reale inserimento materiale e territoriale di gruppi razzializzati stabiliti in città già da anni.

LA QUESTIONE DEL RAZZISMO strutturale, della segregazione urbana, pubblica e lavorativa, assai visibile anche in questa nuova new economy non riesce a conquistare discorso o visibilità. Si rischia così di destinare all’oblio le decine di migliaia di persone che vivono, ormai, da decenni nei quartieri di Napoli, che frequentano le scuole, i pronto soccorso, gli uffici postali, che puliscono le case e assistono gli anziani; si tratta di una porzione di popolazione napoletana che costituisce una buona base del «miracolo» turistico-economico. Un’omissione che ci appare gravida di conseguenze alla luce della crescente razzializzazione della politica e delle questioni sociali dell’attuale scenario, locale e nazionale. Occorrerebbe riflettere di più su questa sottovalutazione, soprattutto se si vuole lavorare in un’ottica davvero ricompositiva delle differenze.

L’IMPATTO SOCIALE di questi processi globali è l’altro assente del dibattito: si tratta di un limite che sembra aver irretito anche buona parte delle realtà antagoniste. A partire da numerose esperienze europee, vorremmo porre l’accento sul costo materiale e simbolico-discorsivo, dei progetti urbanistici di «riqualificazione» nell’attuale fase neoliberale ed «estrattiva» dell’accumulazione capitalistica. È ben noto che questi processi non impattano solo sul mercato del lavoro, ma anche sulla destinazione del patrimonio immobiliare per la popolazione residente. Fenomeni di spopolamento del centro storico verso le periferie non sono certamente una manifestazione recente, ma affondano le loro radici nella gestione della emergenza terremoto del 1980. Ma «questo modo di produzione Airbnb» impatta su una condizione abitativa già emergenziale: migliaia di ingiunzioni di sfratto per morosità, a fronte di una graduatoria ventennale di assegnazione di alloggi popolari che, in quindici anni, ha dato sistemazione solo a poche migliaia su 20mila aventi diritto.

Una ricerca su Airbnb dell’arch. A. Esposito ha evidenziato che sono a disposizione della piattaforma 10mila abitazioni nel centro storico e di queste circa il 70% sono interi appartamenti sottratti alla locazione ordinaria. Così, si sta conferendo la disponibilità immobiliare a un unico soggetto transnazionale. Non è difficile dedurre che esiste un ceto proprietario, in genere di seconde case che, a fronte dei processi di impoverimento della classe media, dello smantellamento delle politiche sociali, di riduzione del welfare familiare, di lavori poco qualificati, integra il proprio reddito con l’accoglienza turistica. Questo processo sta rendendo sempre più difficile la permanenza dei ceti popolari nel centro storico, anche se è bene non semplificare; infatti, insieme a un persistente insediamento popolare si sta verificando, in contemporanea a una marcata razzializzazione del mercato del lavoro, una sorta di razzializzazione/segregazione degli spazi abitati.

LA ZONA DEI DECUMANI, il cuore di questo progetto di trasformazione, è all’interno di un territorio che resta caratterizzato da bassi livelli di reddito, elevata dispersione scolastica, difficili condizioni abitative, in gran parte occupati da chi lavora in queste nuove attività economiche. La città intramoenia si è sempre più popolata di turisti, incrementando in maniera rilevante l’offerta di servizi di intrattenimento, catalizzando allo stesso tempo flussi di visitatori provenienti anche da altri quartieri della città; sono questi elementi, più il «panico morale» diffuso dall’immaginario mediatico su un presunto aumento di episodi di «violenza giovanile», ad aver costruito il dibattito sulla «movida».
Cosa si è dunque modificato nelle strutture del sentire collettive? Forniamo alcuni elementi di riflessione, sottolineando l’impatto che l’uso, o meglio il consumo, degli spazi pubblici sta avendo sul territorio. Le tendenze globali della gentifricazione stanno rendendo i centri delle principali metropoli ghetti asettici, mediatizzati e spersonalizzati per ricchi: anche a Napoli possiamo ormai ravvisare una progressiva perdita dell’uso sociale degli spazi pubblici, che lascia sempre più margine alla logica del consumo dello spazio di tutti come oggetto di profitto e di rendita. L’importanza dell’intrattenimento, inteso come puro consumo del divertimento, appare dirimente per il centro storico, che di giorno è il grande patrimonio culturale da visitare e la sera è luogo di incontro di una socialità sempre più mercificata e senza più alcun senso comunitario. Situazioni che generano tensioni con nuclei di residenti che rivendicano maggiore controllo, più forze di polizia, telecamere, azioni di repressione.

È SU QUESTO LIVELLO discorsivo, più che sulle opportunità fornite dal turismo, che forse, si riscontrano le difficoltà più insidiose per chi porta avanti istanze sociali dal basso. A ben vedere, dunque, la maschera di discontinuità dell’amministrazione arancione, rispetto alla governance neoliberale europea, finisce per dissolversi; il fallimento dei trasporti urbani, l’inconsistenza della politica per la casa si accompagnano alla promozione costante di una privatizzazione totale degli spazi pubblici.
È anche attraverso iniziative istituzionali, come il progetto Adotta la città, che si stanno creando le condizioni per alienare gli spazi urbani con la retorica della partecipazione. A questo punto è necessario ripensare un piano critico e radicale delle attuali trasformazioni urbane e sociali; occorrono forme sperimentali di relazioni politiche e sociali che portino «l’anomalia napoletana» a una messa in discussione reale dei rapporti di potere.