Senza troppo spoilerare in Loro 2 (in sala il 10) il «Paese reale» arriva alla fine di quasi due ore, sarebbero quattro in realtà, perché la divisione vedendo questa seconda parte è pretestuosa, bastava osare contro le abitudini dell’esercizio o tagliuzzare un po’ di balletti e strisciate di coca, «sacrificando» il compiaciuto narcisismo del guardarsi filmare pecore, prati all’inglese, danze e culi tonici. E lì, tra le macerie di questa realtà, sulle sue facce stanche e nello stupore di chi a ha perso tutto ma piange perché non ha più la sua dentiera, questo «Paese reale», frastornato e confuso, fino a quel momento platea televisiva o immagine rimbalzata da uno schermo liquido dichiara una nuova alterità, ( «noi»?) di fronte al «loro» della politica, dei bunga-bunga, delle olgettine, degli Scamarcio-Morra-Tarantini, dei questuanti, dei corrotti radunati intorno alla statua di Lui, chiuso nella Villa in Sardegna dove come un bambino capriccioso che ha litigato coi compagni non riesce a vantarsi dei suoi giochi più belli né a stupire nessuno con gli effetti speciali. Persino il vecchio Mike (Bongiorno) non vuole vedere accendersi il vulcano nel mezzo del giardino.

 

Nella «parabola» berlusconiana che è la «sua« Italia tra il 2006 e il 2010, Loro 2 torna al corpo del capo, e lo mette al centro continuando la ricerca di quel «mistero» che il regista premio Oscar ha indicato come il punto di partenza del suo film. Non svelabile se non spostando la realtà (la politica?) sul piano di una narrazione che ne riempie i buchi utilizzando gli stessi ammiccamenti da imbonitore del Cavaliere .

 

 

Che cosa è Loro 2 dunque? Ciò che il prologo, Loro 1, aveva diluito nel festino, il venditore di sogni, piazzista di bugie gassose, «l’uomo malato» come gli dice la moglie Veronica – Elena Sofia Ricci – prima di lasciarlo disgustata dall’ennesimo scandalo. Lui che piomba alla festa di compleanno della bionda Noemi Letizia appena diciottenne e alla domanda di Veronica su dove ha trovato i suoi soldi non risponde.
I giudici «comunisti» lo perseguitano, le intercettazioni svelano dettagli sordidi, padrone di tre reti televisiveimpone le amanti attricette nelle fiction Congo Diana su Lady D. stile b-movie (magari!) o in parlamento quando con «abile» mossa riesce a tornare dopo la caduta del governo Prodi giurando di occuparsi dell’Italia e degli italiani. Ma quali?

 

Il principio (narrativo) – Sorrentino lo ricordiamo è sceneggiatore con Umberto Contarello – è sempre lo stesso:affrontare l’immagine di Berlusconi con la cifra del romance, meglio ancora del fotoromanzo, nell’intimità di coppia lontana dalle messinscene rituali di Porta a Porta, dalle promesse di vite felici e New Town , sauna, piscina, portiere H24. Una dimensione perfettamente sintonizzata alla sua.

 

 

Veronica è la moglie amata e inseguita che gli è rimasta accanto non per soldi ma per amore, che Lui cerca in ogni fiamma, farfallina, olgettina fidanzatina chiuso dietro a quella rete dove lei appariva come una sirena circondato da farfalle appiccicate. Lui cita Buzzati per giustificare le orge, avvolto nella melassa malinconica della vecchiaia, del corpo che cade, il suo, quello della moglie con le tette non più floride (ma di chi è questo sguardo maschile di Lui/B. o di Lui/S.?)
Youth. L’antidoto della giovinezza, ma la ragazza che va via gli dice che ha l’alito del nonno, da vecchio, che tutto e triste lì dentro e il desiderio è allegria. Coscienza critica nella cronaca rosa? Un altro «noi»?

 

 

La decadenza del capo è un giostra felliniana di illusioni perdute, un impero che si consuma nelle stanze del potere, i suoi che lo rimproverano spiegandogli che non è più tempo di corna e di barzellette nel mondo. Che pensa più alle ragazze che al Paese, quel Paese che sta fuori di lì, immagine liquida su uno schermo piatto.

 

 

Sorrentino dice che non voleva fare un «film schierato» o «ideologico» perché è passato troppo tempo ormai. Poteva funzionare l’idea della coppia Lei come alterità al potere e voce dell’Italia che lo attaccava. E la figura di Lui composta dagli incastri di un sentire/dire comune, di una passione speculativa sulla sua figura, idolatrazione condivisa pure dai detrattori – chi ne parla male ma sempre, nulla di meglio per un narciso mediatico.

 

 

Invece ecco che arriva quell’Italia «vera», tragica (forse lo era anche l’altra però), sbattuta lì a dirci di un terremoto metaforico che si fa fatica a capire quale sia al punto da risultare strumentale (occasione di nuovi virtuosismi)  e molto molto irritante. Quello che manca in questo Loro/Noi,Reale/Virtuale è proprio il cortocircuito che a un certo punto ha tutto mischiato. Una metamorfosi. Un’«iniziazione». La scelta di un punto di vista che non può essere solo artificio di sé.