Il caso Trump nel rapporto tra Stato e piattaforme
Social Il blocco degli account di The Donald è una decisione “politica” assunta da soggetti “economici” che non esitano di solito a dare spazio a contenuti di qualsivoglia natura
Social Il blocco degli account di The Donald è una decisione “politica” assunta da soggetti “economici” che non esitano di solito a dare spazio a contenuti di qualsivoglia natura
L’oscuramento di Donald Trump sui social media induce a interrogarci sul livello di potere delle grandi imprese del web e, più in generale, sull’evoluzione del capitalismo nella sua variante digitale. Molti hanno sottolineato il ritardo della decisione di rimuovere dal web il profilo del presidente americano. Il punto, semmai, è che si tratta di una decisione “politica” assunta da soggetti “economici” che non esitano di solito a dare spazio a contenuti di qualsivoglia natura.
Si può dire, in realtà, che Twitter e le altre piattaforme sono state mosse dall’opportunismo politico. In primo luogo, per cercare di riparare al fatto che da mesi il presidente in carica e i suoi fedelissimi lanciavano sui social messaggi eversivi e incitamenti alla rivolta contro i presunti brogli. In secondo luogo, perché sanno bene che i democratici, vincitori delle elezioni, hanno l’intenzione di regolamentare la comunicazione digitale e, più in generale, promuovere una normativa antitrust riguardante il mercato del web.
I manager-padroni del web erano già stati convocati dal Congresso americano nel giugno dello scorso anno per discutere delle loro piattaforme e di sospetti comportamenti anticoncorrenziali. Da qui la loro preoccupazione e il tentativo di ingraziarsi i democratici schierandosi platealmente.
La Commissione europea, nel mese di novembre, si è decisa a istruire due provvedimenti. Uno per definire una normativa di regolamentazione del mercato digitale, l’altro incentrato sui contenuti illegali che circolano in rete: odio razziale, propaganda terroristica, pedo-pornografia diffusione di fake news, vendita di prodotti contraffatti o non rispettosi delle norme europee sulla sicurezza. Nella loro smania di crescere le web company non rispettano neanche i codici etici che loro stessi si sono dati.
L’ “irresponsabilità” di fronte ai contenuti illegali e nocivi presenti e circolanti nella rete è consentita da una legge americana del 1996. Non sono sanzionabili. La Commissione europea, giustamente, si è posta l’obiettivo di togliere al più presto questa sorte di immunità morale e penale di cui godono i padroni di internet.
Finalmente qualcosa si muove, è il caso di dire, per contrastare il predominio dei big tech. Siamo solo agli inizi e non sarà facile imporre delle regole ai «Leviatani della rete», come titolava il manifesto del 16 dicembre un articolo di Roberto Ciccarelli.
Le cose si complicano ulteriormente sul versante della regolamentazione del mercato digitale. Basti pensare che l’Antitrust europea, che pure nel 2016 aveva comminato ad Apple una multa di 16 miliardi, ha dovuto arrendersi di fronte alla Corte di giustizia della stessa Ue che ha accolto il ricorso dell’azienda. Le web company nel loro insieme costituiscono una piattaforma multiservizio, un monopolio di fatto che impedisce l’ingresso di nuovi soggetti nel mercato. La barriera all’entrata di nuovi soggetti è dovuta al vantaggio incolmabile acquisito in termini di clientela, di raccolta e analisi dei dati, di inserzioni pubblicitarie.
Quando fa capolino qualche start-up più promettente, che potrebbe diventare un temibile concorrente futuro, viene subito neutralizzata, inserendola nel perimetro aziendale con funzioni complementari o, spesso, comprandola. Amazon, da parte sua, arriva a fare di più. Quando alcune merci prodotte da piccole o medie aziende sono molto richieste, non esita a produrle e venderle in proprio. Amazon, nei mesi della pandemia, si è affermato come il più grande emporio e il più veloce spedizioniere del pianeta.
Il capitalismo digitale non solo ha allargato le distanze tra ricchi e poveri, ma sta creando anche serie difficoltà e situazioni di crisi in una parte dello stesso mondo imprenditoriale. La “mano invisibile” del mercato, è il caso di dire, non è l’entità salvifica immaginata da Adam Smith.
Perché si realizzi l’interesse pubblico c’è bisogno più che mai della mano ferma e determinata dello Stato. Ben vengano dunque norme prescrittive e pesanti sanzioni tese a ristabilire condizioni di parità sul mercato, ma i tempi lunghi (il 2023) che la Commissione europea si è data per concludere l’iter della legge non fa ben sperare. Le grandi società che hanno un dominio praticamente incontrastato sulla web economy sanno di aver superato ogni limite, ma non molleranno facilmente la presa.
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