La mostra di Carsten Höller nello spazio dell’HangarBicocca di Milano è vivamente «sconsigliata» ai più impressionabili fra gli adulti. E lo scompiglio percettivo tanto inseguito dall’artista tedesco (è nato a Bruxelles da genitori tedeschi e oggi si divide tra Svezia e Ghana), comincia dal foglio di presentazione che accoglie all’entrata i visitatori. Una sfilza di avvertenze mettono subito in guardia il pubblico: nonostante le apparenze, quello allestito da Höller nel grande ambiente Pirelli non è esattamente un parco del divertimento. È un set che somiglia al Luna Park, ma le sue attrazioni sfoggiano un dna più estremo rispetto ai dispositivi ludici cui siamo abituati. La conquista dello svago passa attraverso l’inquietudine e una buona dose di ansia.

Ci sono diverse cose, infatti, «da sapere prima della visita». Nella maggior parte dei casi, le informazioni riguardano l’integrità psicofisica dello spettatore-attore: tutto è interattivo e ad alto tasso di coinvolgimento emotivo nella produzione di questo artista che nasce come fitopatologo per poi convertirsi in un radicale sabotatore delle certezze umane. Doubt è, non a caso, il titolo dell’antologica milanese appena inauguratasi, a cura di Vicente Todolì, «sperimentabile» fino al 31 luglio prossimo (Decision si chiamava invece la rassegna londinese alla Hayward Gallery dello scorso anno).

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Oltre la scienza
Spazi accecanti, corridoi stretti che ingoiano gli individui in un buio pesto e permettono solo l’ascolto del tramestìo dei passi altrui, luci intermittenti che ingannano l’occhio, percorsi da bruciare sospesi per aria, letti che camminano e sui quali si può dormire una notte intera per 500 euro (la coppia), sgargianti giostre da infingardo Paese dei Balocchi. Sono architetture disorientanti che possono provocare – nell’ordine – attacchi di panico, claustrofobia, acrofobia (paura del volo), kenofobia (paura del vuoto), epilessia e, nei casi più blandi, «accentuare malesseri preesistenti». In più, non sono ammessi passeggini in mostra, mentre i bambini con meno di 12 anni non hanno facoltà di utilizzare quelle seducenti sculture.
Una volta entrati in questo universo parallelo – un inferno paradiso e limbo danteschi mescolati insieme – accade che si viene continuamente interrogati dallo staff se si vuole o meno provare una installazione. Chi proprio non se la sentisse, non rimarrà deluso: vivrà ugualmente la sua «alterazione», semplicemente osservando ciò che fa l’altro da sé. «Viviamo in un’epoca, almeno nella cultura occidentale, in cui tutto è prevedibile, dettato dall’utilitarismo – afferma l’autore -. Bisogna ritrovare la capacità di esplorazione, mutare la sensibilità. Non sono uno scienziato, non cerco credibilità riguardo i miei studi. sono un artista, lavoro sull’astrazione e offro dei test percettivi. A me interessa la risposta dei visitatori. Ognuno può essere osservato e osservatore, quindi, anche chi non partecipa in prima persona è coinvolto in una relazione con tutti coloro che compongono il pubblico in quel dato momento».

L’estasi a scatola cinese
Con la sua voce flemmatica Höller racconta poi (e forse gioca un po’ con uno spiazzamento anche antropologico) che dentro di lui abita un alieno, una specie di ospite-parassita benevolo. È questo piccolo essere a indurlo a compiere le sue bizzarre scelte nell’arte, controllando i risultati e spingendo nella direzione dell’«estasi» ossessivamente ricercata.
Le vie per quell’uscita da sé sciamanica sono infinite: c’è l’Amarita muscaria, fungo allucinogeno e porta privilegiata per approdare in un mondo alla rovescia (somministrato anche a renne vere che hanno vissuto stupefatte per giorni nell’Hamburger Bahnhof di Berlino, mentre gli umani più coraggiosi potevano dissetarsi con la loro urina, raggiungendo stati di coscienza marziani). Ci sono le esperienze architettoniche costrittive, come i sentieri oscuri in cui ci si inoltra e dove «non c’è nulla da vedere se non sperimentare qualcosa che ci conduce altrove». E quelle potentemente disturbanti come le Zöllner Stripes: pareti divisorie optical che prendono il loro nome dall’astrofisico tedesco Karl Friedrich Zöllner. Oppure ci si può stordire con qualche giro temerario sulle gigantesche giostre (Double Carousel), indossando gli occhiali Upside Down Goggles che capovolgono le immagini, facendo smarrire ogni coordinata spaziale tra nausea e vertigini. Pare che l’artista abbia inforcato quegli occhiali demoniaci per un’intera settimana, riuscendo a conviverci senza disagio.

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Il disorientamento auspicato da Carsten Höller in genere mette in scacco tutti i sensi, olfatto tatto udito visione e gusto. Questa volta lo slittamento rispetto alla realtà quotidiana è anche sentimentale, grazie all’opera What is Love, Art?. Già presentata nel 1994 al P.S.1 di New York, all’HangarBicocca s’invera in due telefoni a parete attivati da un circuito chiuso. Chiunque può chiamare dall’altra parte senza conoscere l’interlocutore casuale che deciderà di rispondere. Nel caso che nessuno alzi la cornetta, si può registrare il proprio messaggio, che riguarderà l’amore e l’arte, su una segreteria telefonica.

La poetica del rovesciamento
Il vincolo strettissimo tra uomo e animale è l’altro tema frequentato dall’artista in ogni sua installazione. Qui non mancano a fine percorso i topi da laboratorio costretti a indovinare la strada vitale in un labirinto di giostrine: per procurarsi il cibo dovranno aguzzare l’ingegno. Per Documenta nel 1997 quando Höller collaborava con Rosemarie Trockel, costruì una casa per maiali e uomini in cui i primi erano obbligati a vedere sempre e solo la loro immagine riflessa. Un concetto che venne ribaltato a Palermo, con Addina: alcune galline stazionavano in un pollaio costruito ad hoc, ma i visitatori non potevano vederle e indovinavano la loro presenza dall’odore, dai suoni emessi e dall’uovo che erano invitati a mangiare, mentre le bestie osservavano gli «umani» con agio, scorrazzando dall’altra parte della parete divisoria. Quello zoo al contrario era propedeutico ai rovesciamenti di prospettiva proposti anche in seguito, ai ribaltamenti originati dalla luce, le droghe, il sonno, la perdita di gravità.

La poetica del capovolgimento guidava anche la realizzazione Psycho Tank, sorta di piscina chiusa che accompagnava verso una «privazione sensoriale», ed era la stessa che spingeva all’utilizzo del megascivolo che anni fa invase la Turbine Hall della Tate di Londra. In questo tsunami che travolge ogni sicurezza, per rimanere metaforicamente nell’acqua, forse solo Aquarium (1996) ha un effetto rilassante e non sconvolgente. Richiede pur sempre di entrare in una dimensione «altra», ponendosi all’altezza dei pesci, ma la posizione sdraiata, l’illusione di trovarsi inseriti nell’ambiente marino al pari degli altri esseri viventi, sconfigge lo stato di allerta permanente e obbliga il visitatore a una pausa sognante, trasformandolo in un soggetto transitorio di quel moderno «diorama».